– di MAGDA LEKIASHVILI-
Sono passati 26 anni da quando i paesi appartenenti al blocco sovietico hanno ottenuto la libertà. Una volta satelliti dell’“impero del male” hanno riacquistato l’indipendenza politica anche se non hanno goduto fino ad oggi della sovranità e di tutti gli effetti che ne derivano.
Impero del male – fu Ronald Reagan a chiamare così l’Unione Sovietica. Definiva i sovietici come predicatori della supremazia dello stato e, d’altra parte, dell’onnipotenza, di quello stato, su ogni singolo individuo, mirando a raggiungere il dominio globale.
Non è andato tutto così. L’Unione non ha più avuto la forza di mantenere l’unità. Il 25 dicembre del 1991 l’ultimo capo dell’Urss, Mikhail Gorbachev, annuncia ufficialmente il fallimento. Si dimette dalla presidenza dell’Unione Sovietica, dichiarando la decisione come una questione di principio. Durante un discorso televisivo Gorvachev dice che si è battuto per l’autonomia e l’indipendenza dei popoli; per la sovranità delle repubbliche, ma al tempo stesso anche per la conservazione dello stato dell’unione. Ha prevalso però una linea di disintegrazione dello stato. Tutto ha il suo perché. Già sul finire degli anni ‘80 la società soffocava nel sistema di comando burocratico, condannata a servire un’ideologia. La chiusura al suo interno ha fatto perdere la prospettiva per il paese. Si notava anzi l’aumento della coscienza nazionale e l’aperta espressione del nazionalismo all’interno dei confini dello stato.
Per alcune nazionalità, rinazionalizzazione ha significato l’espansione di un alfabeto e di una lingua scritta. Per altri ha coinvolto la creazione iniziale di un nuovo quadro politico. Per l’Unione Sovietica non c’era più futuro.
“Siamo gli eredi di una grande civiltà e adesso spetta a ciascuno di noi aiutarla a rinascere a nuova, moderna e degna vita” – sono le parole di Gorbachev.
Il giorno dopo, il 26 dicembre 1991 al Cremlino di Mosca viene abbassata la bandiera dell’Urss. L’evento segna la fine di un’epoca, in particolare nello spazio post-sovietico.