Ricordando Bruno Trentin

Il 23 agosto di dieci anni fa Bruno Trentin scompariva. Anima inquieta e critica, era stato il leader delle grandi battaglie sindacale tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi dei Settanta, a cominciare da quella che alla storia è passata come l’Autunno Caldo. Da segretario della Cgil ha rilanciato l’idea del sindacato dei diritti. Abbiamo pensato di ricordarlo riproponendo un capitolo del libro “il divorzio di San Valentino”. 

-di GIORGIO BENVENUTO E ANTONIO MAGLIE-*

«Insieme, di questo siamo convinti e non è uno slogan, se non si vince, si perde sicuramente di meno e divisi invece si perde sempre». E’ ormai sera, giornata lunga e massacrante. E’ l’epilogo. Legge l’ultima cartella, l’applauso e l’abbraccio di Antonio Pizzinato. Bruno Trentin è il segretario della Cgil, dalle 18,45 del 29 novembre del 1988. Un evento che arriva con due anni di ritardo perché nella lotta di successione con Sergio Garavini, alla fine ha pagato soprattutto lui, figura carismatica, leader annunciato con alle spalle una storia lunga, ricca, piena di successi e con qualche insuccesso. Tra lui e Garavini, Lama aveva scelto Pizzinato. Chiunque fosse arrivato dopo di lui, sarebbe stato schiacciato dal ricordo. Una vittima annunciata, Pizzinato. Dirigente bravo ma senza il fascino di Lama, senza quella sua straordinaria capacità di entrare in rapporto con i militanti, di entrare nel cuore del Popolo della Cgil. Pensava, il segretario che si era dimesso due anni prima, che quella scelta avrebbe sanato le ferite, riparato le crepe profonde create dalla vicenda della scala mobile.

Uomo di buon senso, Pizzinato, di esperienza, anche di una istintiva modernità che lo aveva indotto a immaginare un volto più nuovo per la Cgil: un sindacato capace di parlare di diritti nella società non solo sui luoghi di lavoro. Una strada che la Uil aveva cominciato a battere da tempo da quando Giorgio Benvenuto si era reso conto che l’unità della classe operaia non più mitica come negli anni dell’Autunno Caldo, ma più composita, variegata, anche più ampia, in qualche maniera dispersa in mille rivoli, era riconducibile a unità sui bisogni quotidiani, nella sfera dei diritti di cittadinanza. Quell’operaio, quell’impiegato già alle prese con i problemi sul posto di lavoro, si ritrovava a essere tartassato da un fisco ingiusto, offeso da una burocrazia ottusa come quella del regno austro-ungarico, in difficoltà con un sistema sanitario troppo spesso inefficiente. Aveva provato, il nuovo segretario a traghettare la Cgil in un porto sicuro, ma non c’era riuscito. Probabilmente dopo Lama nessuno ci sarebbe riuscito. O forse uno solo. L’uomo che adesso, alle 18,45 del 29 novembre, sul palco riceveva da Pizzinato insieme a un abbraccio, la Cgil. La Lunga Traversata era finita: Bruno Trentin era arrivato in porto, con qualche difficoltà, seguendo una rotta non sempre lineare, con un certo ritardo rispetto ai tempi previsti. Ma quell’investitura, sostanzialmente all’unanimità, con quel voto di 185 compagni pronti a consegnargli una Confederazione bisognosa di ritrovare una vecchia, gloriosa identità, non poteva essere in alcun modo considerata come un accidente del destino. Era, al contrario, il completamento del suo destino.

Aveva un grande fascino, Bruno Trentin. Il fascino di un uomo raffinato e colto, riservato, consapevole delle sue qualità ma allo stesso tempo umile. In quella frase, pronunciata alla fine di un discorso non particolarmente lungo (lui che, invece, amava le costruzioni ampie, didattiche, da argomentatore come lui stesso si definiva), c’era tutta la sua storia. Il ricordo di chi era stato e, allo stesso tempo, l’annuncio di ciò che sarebbe stato. Passava, nella sua mente, quello slogan dell’Autunno Caldo: uniti si vince. Non era sempre stato così, nei diciannove anni successivi. Anche uniti non si era sempre vinto, anzi a volte si era perso, clamorosamente. Ma senza alternative plausibili. Perché, come diceva, in quella sera che dolcemente declinava verso l’inverno, uniti si può perdere meno, ma divisi si perde sempre. E si perde tutto. Con grande onestà intellettuale, quella sera Trentin spiegò gli errori, suoi e degli altri, senza rincorrere alibi, senza nascondersi. La storia della scala mobile era ormai vecchia di quattro anni. Ma bruciava. Soprattutto sulla sua pelle. Perché con una certa sofferenza personale aveva sostenuto la linea della contrapposizione irriducibile, proprio lui che non amava le battaglie disperate, che invitava a lasciare sempre una via di fuga alla controparte, che diceva di essere un sindacalista e non un giocatore d’azzardo, che non amava le azioni di lotta che mettevano in pericolo le persone e gli impianti.

Quattro anni dopo disse, probabilmente, quello che avrebbe voluto dire quattro anni prima e che la partita di una successione ancora tutta da giocare gli aveva impedito di dire, obbligandolo a una fedeltà acritica che non era nel suo dna, nel dna non di un eretico, ma di un diverso. E la diversità, a livello di vertice, nella Cgil, non era un fatto insolito. Lui veniva dal Partito d’Azione, da una storia, anche familiare, in qualche maniera lontana da quella dell’ortodossia comunista. In fondo, non era di nascita comunista nemmeno Di Vittorio; non lo era nemmeno Lama, forse per questo, quando gli si chiedeva perché mai avesse deciso di iscriversi al Pci, un po’ laconicamente rispondeva: «Perché è il partito dei lavoratori». Una risposta troppo elementare per una intelligenza come la sua, naturalmente complessa. Quattro anni dopo, quella complessità animò un discorso che era figlio naturale della sua elaborazione intellettuale. Fatta anche di dubbi, quei dubbi che a Pierre Carniti, ad esempio, non piacevano troppo, apparendogli a volte tentennamenti.

Disse a quella platea che era la stessa di quattro anni prima: «Come non riconoscere che il nostro è stato per molti, troppi anni, l’alternarsi di un massimalismo difensivo e conservatore – la scala mobile non si tocca, la demonizzazione della flessibilità del lavoro, la retorica dell’egualitarismo – tutti gli slogan unitariamente gridati nelle piazze mentre tutto cambiava di fronte alla nostra impotenza nei luoghi di lavoro e di un pragmatismo ormai senza linee-guida, senza principi rivisitati e convalidati. Come negare che abbiamo dato tante, troppe volte, lo spettacolo di un divorzio incomprensibile per i lavoratori tra una demagogia dei proclami e l’opportunismo spicciolo dell’azione di tutela e di contrapposizione».

Ritornava quella sera un ricordo di tanti anni prima. Un ricordo che aveva già sollecitato il pentimento di Giorgio Benvenuto, quando la questione non della scala mobile ma più complessiva di un governo reale della politica dei redditi era sfuggita di mano proprio a causa della demagogia dei proclami e dell’opportunismo dell’azione di tutela. Diceva Trentin: «Scusatemi questo ricordo che ancora mi scotta: l’assemblea unitaria di Montecatini resterà nella storia minore del sindacalismo italiano come il momento in cui si sprigionò unitariamente un’orgia di massimalismo rivendicativo, fragoroso quanto impotente e come l’atto che precedette la ritirata scomposta del movimento sindacale verso le battaglie sulla scala mobile. Lasciando così sgombro per molti anni il fronte vero delle ristrutturazioni, delle riconversioni, del decentramento dei diritti e delle speranze delle lavoratrici e dei lavoratori in carne e ossa». Perché il problema era stato proprio quello: uno scontro titanico intorno a un totem, mentre tutto cominciava a cambiare quasi senza che i sindacati ne avessero consapevolezza, distratti com’erano da un problema che era solo un piccolo pezzo dell’universo, non l’universo. Continuava Trentin: «Emblematica è stata senza alcun dubbio ed è ancora una ferita che ci portiamo dentro tutti – la vicenda dell’accordo separato dell’84 – Una vicenda nata in un momento voluto dalla Confindustria al quale siamo andati senza un progetto di riforma della scala mobile davvero elaborato, deciso e sostenuto dagli organismi dirigenti della Cgil, senza un’idea di rilancio dell’iniziativa articolata del movimento sindacale, se si escludono alcune proposte più o meno improvvisate che hanno vissuto soltanto un momento nel corso delle trattative di quei mesi».

Una analisi complessa, quella di Trentin, che non lasciava spazi agli alibi, che certo coinvolgeva tutti ma, soprattutto, non escludeva se stesso. Diceva ancora: «Non si è colta in quella occasione, non l’abbiamo colta noi affannati nella difesa ravvicinata di questo o di quel meccanismo della contingenza non credo che lo abbiano colto con lucidità le altre organizzazioni, quella che era la questione di fondo, il tentativo di mutare in quel modo il sistema complessivo – altro che la scala mobile! – della contrattazione collettiva. E questo, all’occorrenza anche con un decreto legge che sanzionando un accordo separato, faceva a pezzi tutta una cultura della Cisl sulla autonomia contrattuale di un sindacato libero». Alla fine riemergeva sempre il suo dissidio con Pierre Carniti. Non riuscivano a intendersi, nonostante la lunga frequentazione nella Flm. Carniti esprimeva in questa maniera la sintesi delle tre personalità che convivevano in quella straordinaria esperienza, forse l’unica realmente unitaria: «In Trentin prevale lo spirito dell’ideatore, in Benvenuto quello del comunicatore, in me quello del realizzatore».

Erano diversi per carattere. Ma non solo. Anche sulle strategie politiche, alla resa dei conti non si ritrovavano. Carniti voleva il punto unico di contingenza; Trentin avrebbe preferito quello differenziato; l’egualitarismo salariale trovava all’interno della Cisl ferventi sostenitori ma l’allora segretario della Fiom non riusciva a ritrovarsi su quell’idea. Erano diversi anche per estrazione sociale. Trentin era cresciuto in un ambiente colto e borghese, era nato in Francia, a Pavie, dove suo padre, Silvio Trentin, “riparando” in Guascogna, aveva aperto una libreria e ancora alla metà degli anni Sessanta il suo italiano era percorso da francesismi: il sindacato diventava il sindicato, quasi un neologismo, una derivazione del «Syndicat». Era riservato: non amava parlare di se stesso, nemmeno di quella brigata di Giustizia e Libertà comandata durante la guerra partigiana a soli diciassette anni; non era presenzialista, non si concedeva troppo nelle interviste finendo per avere un unico vero “confessore”, Bruno Ugolini de “l’Unità”; sicuramente un po’ snob negli atteggiamenti e nelle passioni. Lama, al contrario, era un estroverso romagnolo, appassionato di calcio. Lui appariva, ma in realtà non era, un intellettuale chiuso e ombroso (certo permaloso), il calcio, poi, lo detestava profondamente. Al ministero del lavoro, a via Flavia, durante le lunghe trattative dell’Autunno Caldo, avevano organizzato uno stanzone con una televisione. E lì si ritrovavano, sindacalisti e imprenditori, tutti appassionati di football. Le urla si alzavano possenti quando c’erano le partite. In fondo alla sala, le spalle voltate alla televisione, Trentin leggeva il giornale. Non era ostentazione (o forse in parte anche lo era) ma proprio non riusciva a capire perché mai la gente si agitasse tanto per un pallone preso a pedate. Nel ’66, durante i Mondiali, pronosticò, forse in un’ottica al contrario scaramantica, la sconfitta dell’Italia contro la Corea del Nord. A risultato consumato, gli chiesero come avesse fatto a prevedere una cosa del genere, così fuori da ogni plausibile previsione. Rispose: «Perché i popoli vanno educati». Scherzava, ovviamente.

Perché poi gli era stata ritagliata questa immagine seriosa che non corrispondeva completamente alla realtà. Aveva un tratto ironico, anche goliardico che veniva periodicamente a galla. All’ufficio studi aveva avuto come un segretario confederale di riferimento un dirigente molto furbo ma non particolarmente colto. Gli presentò una relazione con i fogli scompaginati: non aveva né capo né coda ma il segretario in questione la lesse sino alla fine, senza battere ciglio. A Felice Mortillaro aveva attribuito un soprannome: Lotta Continua perché non si arrendeva mai (Ottaviano Del Turco aveva, invece, puntato su una definizione radiofonico-calcistica: Tutto il Medioevo minuto per minuto) ma in occasione di una trattativa (insieme ai suoi soliti “compagni di viaggio” della Flm, Benvenuto e Bentivogli) lo fece arrendere con uno stratagemma. Era il 1976 e si discuteva faticosamente del rinnovo del contratto dei metalmeccanici. I sindacalisti volevano chiudere entro il 1 maggio. Ma c’erano due ostacoli insormontabili: l’accordo del 1975 sul punto unico di contingenza e Felice Mortillaro. L’accordo sul punto unico aveva come corollario un impegno: gli aumenti salariali dovevano essere pagati come EDR, cioè elemento distinto della retribuzione, non dovevano avere ricadute sulle altre voci della busta-paga. Ma la Flm a questa imposizione non aveva alcuna intenzione di piegarsi. Mortillaro, però, non cedeva e a quel punto i sindacalisti avevano pensato di aggirarlo contattando l’imprenditore metalmeccanico più importante, Umberto Agnelli. Nelle trattative i protagonisti si “marcavano” a vicenda e Mortillaro non si allontanava un attimo. Non c’erano i telefonini: la situazione si poteva sbloccare solo con una azione diversiva. La soluzione era semplice anche se non proprio ortodossa: chiudere l’uomo della Federmeccanica in una stanza, il tempo necessario per una telefonata. Solo Trentin, il più autorevole, poteva circuirlo. E così fu. Lo prese da parte con la scusa di illustrargli alcuni dati. Poi si allontanò e la porta fu chiusa a chiave con Mortillaro che dall’interno la prendeva a pugni. Fu riaperta solo dopo il colloquio telefonico con Umberto Agnelli e il via libera al nuovo contratto effettivamente firmato il 1 maggio. Con Mortillaro che ancora urlava: Me la pagherete. Ma in realtà era lui che in quel momento stava pagando uno sgarbo commesso quattro anni prima quando gli avevano affidato il compito di scrivere una norma sulla riduzione dell’orario dei lavoratori della siderurgia e lui l’aveva elaborata in una maniera tale che risultasse inapplicabile.

Poi, qualche giorno dopo, tutti si ritrovarono nella sede della Confindustria e Gianni Agnelli avendo visto i capi della Flm, andò loro incontro facendo i complimenti per il contratto appena firmato. E a chi sottolineava che gli aumenti non erano stati dati sotto forma di EDR, replicava: «Ma che volete, loro sono i metalmeccanici, sono i più bravi». Era la stessa ironia che Trentin usava quando raccontava della sua campagna elettorale nelle elezioni politiche del 1963. Era già un leader sindacale molto noto e il Pci decise di candidarlo in Puglia, nel collegio di Brindisi, Lecce e Taranto (non c’era ancora né la Montecatini, né l’Ilva, né la Fiat). I suoi comizi, da argomentatore, non sembravano appassionare la platea e così il segretario provinciale comunista di Taranto per piegare le perplessità dei compagni e degli elettori lo presentava come il fratello del noto ciclista francese Pierre Trentin. Aveva una maniera in qualche modo gentile di esprimere il suo dissenso nelle riunioni. Gentile e un po’ rituale pertanto prevedibile. Il suo intervento cominciava sempre nella medesima maniera: «Sono d’accordo, ma…» Quell’avversativo annunciava un discorso che si sarebbe dipanato in direzione totalmente contraria. Aveva, però, anche un modo franco e leale di affrontare il confronto. Difendeva sino all’ultimo e con determinazione le sue proposte ma accettava di andare in minoranza e dalla posizione minoritaria si impegnava a sostenere la scelta uscita vittoriosa dalla conta. Non era un grande oratore, il suo modo di ragionare in pubblico non scatenava le folle. Al contrario di Carniti, invece, abilissimo. E dello stesso Lama che durante i congressi si sedeva alla presidenza, prendeva diligentemente appunti degli interventi degli altri oratori. Trentin, invece, si immergeva nella lettura dei giornali, sembrava quasi distratto. In realtà ascoltava. Ma era un atteggiamento che ad alcuni risultava poco simpatico. Dato che all’intermo del sindacato in quegli anni di grande unità c’era la tendenza a scherzarci su, un giorno quelli della Cisl decisero di «vendicarsi». Mentre lui parlava, uno di loro, Nino Pagani, si presentò con un mucchio di giornali, ne tirò fuori uno e si mise rumorosamente a sfogliarli. Per rendere la cosa più evidente, teneva il quotidiano alla rovescia. Trentin capì e da quel momento anche lui smise di leggere mentre gli altri parlavano.

Quella sua borsa dilatata come una fisarmonica si è trasformata quasi in un simbolo del sindacato. Leggeva molto, al contrario di Lama che non si attardava troppo nell’ analisi dei giornali. E quella consuetudine di muoversi praticamente con un “archivio” la trasmise anche ad altri, ad esempio, a Giorgio Benvenuto. I loro rapporti erano nati intorno al 1964, nei metalmeccanici. Benvenuto aveva ventisette anni, era un giovanissimo dirigente della Uil spedito nella categoria a «farsi le ossa»; Trentin ne aveva trentotto. E in un ambiente in cui i vincoli di solidarietà finivano per essere molto forti, si era instaurato un rapporto quasi fraterno, tra fratello maggiore e minore. In quegli anni il sindacato, che stava crescendo, ancora non era fortissimo e spesso le assemblee non particolarmente affollate. C’era la consuetudine che quanto uno dei tre segretari parlava, gli altri due si sistemavano fra il pubblico anche per far numero. D’altro canto, come ha raccontato Claudio Signorile, a volte, soprattutto al Sud, non c’erano differenze tra sedi sindacali e sedi politiche: le stesse stanze servivano per gli uni e per gli altri. Una contiguità che a volte favoriva anche la contaminazione delle idee. Poi i metalmeccanici divennero forti, le assemblee affollatissime e l’unità sempre più solida. Quando decisero di dare una «casa» alla Flm, si ritrovarono a dover scegliere tra due soluzioni a Roma: una all’Ostiense e una a Corso Trieste. La prima era infinitamente meno costosa della seconda. Ma Trentin capì che qualcosa non andava e ne sconsigliò l’acquisto. Finì con una indagine giudiziaria e con l’arresto di colui che aveva proposto l’acquisto del palazzo. Quella sede in Corso Trieste scatenò l’ira polemica di Rinaldo Scheda che accusò i colleghi metalmeccanici di aver buttato via i quattrini invece di distribuirli agli operai. La risposta di Trentin fu altrettanto polemica e forte (negli anni del compromesso storico, d’altro canto, Scheda che aveva svolto l’introduzione a un vertice unitario, si vide “respingere” da Carniti in maniera decisamente liquidatoria: “Abbiamo ascoltato la relazione. La rigettiamo”). Era il periodo in cui Benvenuto era finito nel mirino della Confederazione a causa delle sue spinte unitarie e la Uilm (che non a caso aveva predisposto il presidio delle sedi) rischiava il commissariamento. Ma quel palazzo andava diviso in «quote» fra le tre sigle. «Se ti commissariano, lo perdiamo», gli disse Trentin. Ci voleva una soluzione. E fu trovata: la quota venne intestata a Benvenuto che a quel punto non poteva più essere «sfrattato» mentre, al contrario, avrebbe potuto sfrattare un eventuale nuovo sindacato dei metalmeccanici organizzato dalla Uil, operazione a cui pure Vanni aveva provato a dedicarsi senza successo.

Ha detto spesso, Benvenuto: «Ho un bellissimo ricordo di Bruno». La sua lucidità di analisi era straordinaria. Così come pure la conoscenza delle lingue. Una conoscenza che tornava utile all’estero. Seppur con qualche gaffe. Come quando partirono per andare a incontrare i sindacati in Vietnam. Infuriava la guerra e per arrivare fecero il periplo del mondo. Poi, si ritrovarono in mezzo alla giungla, dove era sistemata la più grande fabbrica siderurgica del paese, poco più di una fonderia. Vennero invitati a parlare ma nessuno sapeva quale lingua utilizzare. Alla fine convinsero Trentin a un saluto in francese. Vennero circondati dal gelo. Capirono solo dopo il motivo. Quando li portarono in quello che era stato un cimitero francese che stavano sbancando per costruire una nuova fabbrica. Avevano utilizzato la lingua dei colonizzatori. Amava difendere i suoi spazi privati. A volte incorrendo in qualche incidente di percorso. Come quando aveva dimenticato che dall’Algeria sarebbe arrivata una delegazione. Provò a darsi comunque alla fuga e per evitare di incrociare gli ospiti, se la svignò passando dal terrazzo di Corso d’Italia. Ma uno degli algerini lo vide e lo riconobbe. provarono a spiegare che stava facendo degli esercizi ginnici. Quando terminò il mandato decise di rimanere in Cgil. Era stato un grande leader ma con l’umiltà che lo aveva sempre contraddistinto, andava a presiedere riunioni sindacali, a fare comizi in posti sperduti, come il più giovane dei dirigenti. Quando Giorgio Benvenuto divenne segretario del Psi, in un momento terribile per la vita del Paese e del partito, gli volle manifestare tutto il suo sostegno e tutta la sua solidarietà.

Qualche anno dopo si ritrovarono nello stesso partito. Ma lui viveva con una certa amarezza l’esperienza politica. Valeva per lui, come per tutti gli altri, quello che aveva detto Lama: difficile per un sindacalista adattarsi alla vita dei partiti. Diversi i modi d’azione, i tempi, le logiche. Nel sindacato il contatto con le persone è diretto, la verifica della fondatezza (o dell’infondatezza) delle scelte immediata. I partiti, invece, sono macchine autoreferenziali, la politica spesso si esalta in un dibattito astruso su cose che ai cittadini non interessano, in raffinate ma sterili alchimie, in confronti infiniti e sfibranti sulle alleanze. E poi erano diversi i vincoli, era diverso il tessuto relazionale. In quel sindacato, i rapporti andavano oltre la contiguità temporanea, si finiva per essere realmente amici, anche nella tempesta. Ci si scontrava ferocemente ma poi ci si prendeva in giro. Il linguaggio era diverso, sebbene a volte il «sindacalese» apparisse una lingua proveniente da Marte. Con i suoi modi gentili, ovattati, Trentin era in grado di convincere gli interlocutori e se Lama aveva con l’avvocato Agnelli quasi un rapporto di amichevole complicità, Trentin era capace con il suo garbo e la sua raffinatezza intellettuale di “circuirlo” in qualche maniera per ottenere un successo sindacale. Bruno Visentini che era stato grande amico del padre, lo trattava praticamente come un figlio. Al di là degli aspetti contingenti, anche questo tessuto di relazioni ha reso forte l’unità della Flm.

La vicenda della scala mobile rappresentò una frattura politica ma non mise in discussione il tessuto umano che c’era dietro quei rapporti di solidarietà, non scavò baratri incolmabili. Nel sindacato i legami sono stati sempre più forti di quelli che si creano nel mondo della politica. Il 10 aprile del 1965, Fernando Santi, ad esempio, così rispondeva a un giovane dirigente sindacale della Uil, Giorgio Benvenuto, che gli aveva rivolto un commosso saluto nel momento in cui aveva lasciato la Cgil per dedicarsi all’attività parlamentare: «Sindacalista come sei, hai compreso quanto il distacco dal sindacato abbia costituito per me un momento, come tu dici, amaro e doloroso. La mia pena è allietata dalla speranza che qualcosa lascio al movimento sindacale come esempio di disinteresse e di lealtà nei confronti della causa che ci è comune». In questo solco di rapporti solidali si inserì anche il confronto sulla scala mobile che distribuì, come spesso capita nella vita, torti e ragioni; produsse momenti polemici; ma non intaccò le radici di relazioni individuali che il tempo, la frequentazione, le battaglie avevano stratificato un po’ come ere geologiche. In tutti era forte la consapevolezza che i momenti di divisione sono temporanei ma alla fine ciò che unisce resiste nel tempo, va oltre le stesse vite. In quella relazione di Trentin si intravedeva questa consapevolezza. E guardando dentro la sua Confederazione, diceva con forte spirito autocritico: «La cosa più grave nella Cgil è che non ci siamo divisi, allora, sulla riforma del salario e della scala mobile. Né, successivamente, sui patetici tentativi – possiamo ormai chiamarli così – di recuperare a posteriori i punti tagliati, sottovalutando l’enorme portata che ebbe invece la modifica del decreto sulla scala mobile che cancellava un sistema di contrattazione determinando un cambiamento epocale e una regressione forse irrimediabile del sistema delle relazioni industriali. Ci siamo invece divisi, volenti o nolenti, su una logica di schieramento determinata dal rapporto con altre organizzazioni o sulle valutazioni rispetto alla politica del governo. Si avvia da lì – e ne portiamo tutti pesanti responsabilità – un processo che vede affermarsi sempre di più, anche al nostro interno, quella politica degli schieramenti che noi spesso additiamo come il limite dei partiti italiani. Una politica degli schieramenti che si sgancia dalla ricerca dei contenuti, dalla cultura sindacale, dalla ricognizione delle trasformazioni e dei problemi inediti che esse pongono. Si avvia da lì un processo in cui le culture sindacali lasciano sempre di più il posto a ideologie di organizzazione o di gruppo, ideologie intese come scatole vuote che si possono riempire con qualsiasi contenuto».

Spiegava i problemi della Cgil ma non solo della Cgil: «Una crisi come quella del sindacato è prima di tutto crisi di contenuti e di cultura. Sono il primato di organizzazione, il bisogno di autolegittimazione dei gruppi dirigenti o del gruppo in genere che si ritrovano all’interno di una grande organizzazione di massa a dettare le linee di condotta e non la ricerca in mare aperto, l’assillo e la proposta capace di costruire consenso. Io penso che proprio in questo contesto è venuto maturando non soltanto il vuoto di proposta ma un vero e proprio imbarbarimento culturale della vita sindacale, un pressappochismo crescente che ha finito per indebolire e mettere in questione le stesse capacità professionali del sindacato nell’organizzazione del nuovo». Si sentiva libero, Trentin, come ai tempi della Flm quando poteva pensare con la sua testa senza sentirsi condizionato da situazioni esterne. Il Pci berlingueriano lo obbligava a un atto di fede lontano dal suo modo di essere.

E poi quella competizione con Garavini, con quel concorrente alla segreteria che come lui aveva alle spalle una storia tortuosa. L’uscita tumultuosa nel 1948 dal Psi dopo un litigio furibondo con Sandro Pertini. Quelle sue origini familiari (la ricchezza, il padre imprenditore) che in un consiglio generale del 1975 con estrema crudezza aveva evocato Rinaldo Scheda ricordandogli la «sua origine sociale non propriamente operaia». Un carattere spigoloso, che da grande amico e sostenitore di Luciano Lama lo aveva trasformato in nemico acerrimo dell’ex segretario della Cgil, una inimicizia che lo portava a commentare in maniera gelida la famosa intervista anticipatrice della «svolta dell’Eur»: «Non l’ho letta, ho avuto altro da fare». O che lo induceva, nel congresso del cambio della guardia, a tenersi alla larga dal tavolo della presidenza per salirvi solo dopo che Lama se ne era allontanato. Lui e Trentin erano stati i «gemelli siamesi» dell’Autunno Caldo: uno alla guida dei tessili, l’altro a quella dei metalmeccanici. Erano legati, profondamente legati. Poi la corsa alla segreteria li aveva divisi. Ma soprattutto il Compromesso Storico: Garavini si era trasformato in una sorta di «guardia rossa» di quella linea politica, l’interprete sindacale più fedele e ortodosso. Inevitabile la sofferenza di Trentin costretto a giocare la partita con carte non sue, quelle della fedeltà a una linea di partito che faticava ad accettare (figuriamoci a condividere), lui che era stato l’uomo dell’autonomia, della Flm. Prendendo le redini della Cgil si sentiva libero, finalmente in grado di sviluppare i suoi complicati ma illuminanti discorsi.

Il destino gli avrebbe riservato un’altra prova complicata: nell’estate del 1992, con l’Italia nel pieno di una tempesta monetaria e il Presidente del Consiglio, Giuliano Amato, che raccattava soldi un po’ ovunque, anche con il prelievo del sei per mille sui depositi bancari. Aveva firmato l’accordo, aveva «sepolto» la scala mobile dopo un lungo colloquio a quattr’occhi con Amato. Firmò e fuggì per quattro giorni in Corsica. Si concesse una sola telefonata: a Bruno Ugolini. Due pagine di intervista che annunciavano quella lettera di dimissioni che poi sarebbe stata respinta. Non c’era più il Pci e c’era Occhetto che non aveva la forza carismatica di Berlinguer né le qualità politiche. In sedicesimo, lo stesso scontro di otto anni prima, con protagonisti diversi. Aveva accreditato, Occhetto, la tesi di un Trentin piegato da una sorta di «ricatto» organizzato da Amato, cosa difficile da credere riguardando un Governo non particolarmente forte e un uomo, Trentin, abituato a scegliere con la sua testa.

E lo disse chiaramente in quel direttivo che alla fine lo confermò, all’unanimità, sulla poltrona di segretario. Spiegava: «Le mie dimissioni non sono state dettate da nessun amletismo o come si è detto da uno stato di costrizione. I condizionamenti politici sono altra cosa, pesano su ognuno di noi e la nostra personale libertà e integrità di giudizio dipende dalla nostra capacità di guardarli in faccia senza infingimenti e senza ipocrite rimozioni. Ero e sono convinto di aver avuto delle buone ragioni per preferire la firma di un brutto accordo a una crisi devastante del movimento sindacale che lo avrebbe trasformato nel capro espiatorio di una bancarotta politica e finanziaria che incombe tuttora sulle pubbliche istituzioni». Una scelta ispirata da quella sensibilità unitaria (fortissima, forse anche più forte di quella che animava Lama) che non si era mai appannata, nemmeno otto anni prima quando pure si era “dissociato”. E ancora: «Ho avvertito che la Cgil poteva essere il comodo capro espiatorio di responsabilità altrui. Ho pensato quindi che una crisi di questa natura in agosto, senza fra l’altro che i lavoratori potessero far sentire almeno le loro ragioni avrebbe avuto conseguenze disastrose per il paese e per il sindacato».

Tornavano a galla i concetti e le problematiche che erano emerse già otto anni prima: il sindacato come soggetto politico, l’autonomia, la capacità di incidere sulle scelte macroeconomiche. Affermava ancora Trentin: «Per un sindacato soggetto politico come vuole essere la Cgil dichiararsi riformatore vuol dire scegliere di verificare fra la gente la propria utilità come sindacato generale, attraverso la realizzazione di riforme molto concrete, nel lavoro, nell’economia, nelle istituzioni… Allora la crisi economica e finanziaria, per quanto originata da altri è affare nostro, non è affare loro. Ed è affare nostro perché dobbiamo dimostrare di fare la nostra parte per scongiurarne l’aggravamento e per aggredire le cause che l’hanno provocata. Le due cose sono inseparabili agli occhi della gente e in primo luogo dei lavoratori». Si era ritrovato nella stessa situazione di Lama ma con margini di manovra più ampi. Spiegava: «Ho chiaramente avvertito nelle ore tormentate che precedettero l’ultimo incontro con il governo, il 31 luglio scorso, che una divisione dei sindacati sulla firma del protocollo avrebbe determinato conseguenze catastrofiche e durevoli non solo per i sindacati stessi ma per il potere contrattuale dei lavoratori e nei rapporti tra lavoratori e sindacati». Ma la sua non era stata una scelta obbligata, forzata: «Non c’era il pericolo di un accordo separato. Il governo non aveva la forza di imporlo e gli altri sindacati dichiararono di escluderlo. Ma c’era il pericolo, questo sì, di una manovra politica che, al di là delle intenzioni di ognuno, portava all’isolamento della Cgil, confondendo questo isolamento con le implicazioni economiche e politiche del mancato accordo».

Chiudeva con un riferimento a un tema classico del dibattito sindacale: «La prova dell’autonomia non è mai vinta una volta per tutte. E ad ogni fase di trasformazione e di mutamento della società essa si ripropone duramente, magari in termini più avanzati, più sofisticati ma sempre duri e imperiosi». Gli anni nella politica non furono felici, la «fusione fredda» che portò al Pd non lo convinceva. Lo disse ma invano, in una intervista che comparve su “l’Unità” l’8 giugno del 2006: «Io, d’altro canto, comprendo perfettamente la preoccupazione di De Mita di non finire almeno per ora nell’Internazionale Socialista. Sono, però, sicuro che De Mita comprenderà le intenzioni di persone come me di partecipare a questo processo unitario e nello stesso tempo di morire socialista. Comprendo Chiamparino quando si dichiara sindaco di tutti e quindi uomo di centro ma credo non si debba dimenticare che è stato eletto sulla base di un programma anche nazionale che sa distinguere tra operai e banchieri, fra salario, profitto e rendita». In quel suo desiderio di «morire socialista» in una società che ha abbattuto le ideologie per sostituirle tutte con un pensiero unico e indistinto, che facilita la vita di chi ha di più rendendo sempre più difficile quella di chi ha di meno, in fondo Trentin era molto meno isolato di quanto lui stesso potesse immaginare.

* Giorgio Benvenuto e Antonio Maglie: “Il divorzio di San Valentino. Così la scala mobile divise l’Italia”, Fondazione Bruno Buozzi, prima edizione 2014, seconda 2015

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