Gabrielli su Bolzaneto usa la parola giusta: tortura

 

Ci sono voluti sedici anni perché un capo della polizia usasse per qualificare quel che avvenne a Bolzaneto in occasione del G8 di Genova, la parola giusta: tortura. Questo atto di onestà e sincerità fa onore a Franco Gabrielli, aggiunge credibilità ai poliziotti in quanto tutori dell’ordine democratico e promette rispetto e garanzie ai cittadini. L’aggettivo che segue la parola “ordine” è fondamentale. Anche per capire il discredito che, al contrario, accompagna quegli uomini politici (il presidente del consiglio dell’epoca, Silvio Berlusconi, il suo vice, Gianfranco Fini, il suo principale alleato, Umberto Bossi) e quei funzionari di polizia che preferirono come gli struzzi mettere la testa sotto la sabbia, che decisero di cancellare quella “brutta” parola dal vocabolario della lingua italiana con la conseguenza che hanno continuato a cancellarla negli anni a seguire anche dal vocabolario della lingua legale italiana, cioè dal nostro codine penale.

Uno stato democratico che ha paura (o rifiuta) di definire le cose per quel che sono è evidentemente uno stato malato. Quel che avvenne a Bolzaneto fu chiaro a tutti e tutti, invece, coprirono. Il silenzio, le bugie e l’omertà se non sono accettabili per i comuni cittadini, lo sono ancor meno per chi quei cittadini deve governare, tutelare, proteggere. In primo luogo per chi, al governo, essendosi macchiato di quella vergogna davanti al mondo e in diretta televisiva, avrebbe dovuto fare subito ammenda evitando atteggiamenti tronfi, da piccoli caudillos sudamericani. In secondo luogo i più alti gradi della polizia (Gabrielli cita nella sua intervista a “la Repubblica” Gianni De Gennaro): avrebbero dovuto assumersi le responsabilità per quello che era accaduto e che nessuno impedì che accadesse, inanellando una lunga teoria di errori strategici e operativi (De Gennaro non solo non si dimise, cosa che a parere di Gabrielli e di tutti i cittadini liberamente pensanti, avrebbe dovuto fare, ma ha anche fatto una brillante carriera all’ombra dell’industria di Stato). I meriti della polizia sono noti a tutti ma ciò non toglie che vi possano essere al suo interno aree non particolarmente allenate alle regole democratiche: dirlo non configura un reato di lesa maestà né indebolisce il corpo nel contrasto al terrorismo, alle mafie e nella tutela dell’ordine pubblico. Non si tratta di colpevolizzare o criminalizzare qualcuno, ma di creare le condizioni perché chi è titolare della prerogativa dell’uso legittimo della forza in nome della democrazia, rispetti poi quella democrazia in ogni momento della sua attività, utilizzando quel potere in maniera corretta, in nome e, soprattutto, nel rispetto della legge e solo quando le condizioni non consentano alternative.

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