-di ANTONIO MAGLIE-
È stato divertente e decisamente istruttivo seguire in questi giorni le prestazioni televisive di illustri commentatori a proposito delle elezioni britanniche. Personaggi che semmai in un lontano passato hanno fatto riferimento ai valori della sinistra (soprattutto di una parte) e che nel tempo, folgorati sulla via della Thatcher, fatto atto di contrizione, dopo aver rasato la barba di Marx e spuntato i baffoni a Stalin, sono passati direttamente dall’idea dello Stato-balia e istitutore a quella del laissez faire radicale. Avevano, anche al seguito dei colleghi londinesi, descritto Jeremy Corbyn come una sorta di dinosauro sfuggito miracolosamente alla glaciazione ma destinato a essere rispedito nelle caverne dal travolgente vento del liberismo trionfante che sì, avrà fatto pure qualche piccolo danno, ma non può essere messo in discussione nella sua vitalità, nella sua capacità di rispondere alle esigenze dell’uomo moderno, del suo bisogno di realizzarsi attraverso il guadagno, di compiere le vecchie misurazioni anatomiche che facevamo da bambini utilizzando il riferimento al reddito incamerato, percepito e, possibilmente, non dichiarato al fisco. Il ribaltamento delle previsioni da parte dell’uomo delle caverne, i diciotto punti rosicchiati in una campagna elettorale che ha politicamente azzoppato Theresa May, li ha sorpresi, forse ancor di più dei colleghi britannici.
Perché ai loro occhi era impossibile che una simile anticaglia che parlava di servizi pubblici gratuiti, di uno stato coinvolto nell’attività economica come soggetto controllore e programmatore, di welfare generalista, di istruzione a tutti accessibile (anche a chi non si può permettere tasse di iscrizione molto elevate), potesse affascinare l’elettorato. Sostenevano (probabilmente anche a ragione) che non avrebbe mai trovato i soldi. Ma, ad esempio, non spiegavano a chi fossero state sottratte quelle “risorse” che hanno consentito all’uno per cento della popolazione mondiale di poter tranquillamente dormire su materassi (costruiti nei paradisi fiscali) rigonfi di dollari ed euro; né come sia stato possibile negli ultimi venti, venticinque anni questo spostamento massiccio di Pil dai salari ai profitti. Probabilmente non se lo chiedevano e non se lo chiedono perché la loro idea di modernità è di tipo ideologico che poi significa culturalmente subalterno (volutamente, visto che la cosa può anche garantire benefici): è moderno ciò che è funzionale all’idea di una società che polarizza sempre di più la ricchezza, che redistribuisce sempre di più la povertà, che abbassa le tutele assistenziali e previdenziali, che riduce il lavoro a semplice merce da scambiare al prezzo più basso possibile tanto dal punto di vista salariale che da quello legale.
È possibile che Corbyn sia un residuo degli anni settanta, ma la domanda che bisognerebbe porsi è un’altra: dopo i famosi “trenta gloriosi”, ribaltato quel paradigma, slegata l’iniziativa privata dai “lacci e lacciuoli”, celebrato il trionfo prima della Thatcher e poi di Blair (Clinton e Schroeder) abbiamo vissuto meglio? Abbiamo costruito una società migliore, più equa, più giusta, più friendly (per essere un po’ esotici e moderni)? O non abbiamo per caso vissuto la più devastante crisi economica che il mondo abbia conosciuto negli ultimi centocinquanta anni? O non è vero che siamo gioiosamente passati di “bolla” in “bolla” consegnando le chiavi del nostro destino alla finanza speculativa mentre le fabbriche chiudevano, con i nostri eroi che colpevolmente annullavano la distinzione tra banche d’affari e banche commerciali?
Ci siamo esaltati con le privatizzazioni e l’uscita di scena dello Stato. Che l’Iri fosse un collettore di tangenti è chiaro a tutti: ma dopo la sua morte, le tangenti in Italia sono scomparse? Le Partecipazioni Statali erano un carrozzone eppure per quanto criticabili non avevano favorito l’avvicinamento del Sud al Nord (raggiungendo il punto massimo nel 1970)? Dopo di allora come sono andate le cose? Le due Italie si sono avvicinate o allontanate? Le aziende (s)vendute ai privati non è vero, come segnalò in un suo libro Luciano Gallino, che hanno subito un crollo della redditività? E l’uscita di scena delle aziende pubbliche ha fatto aumentare o diminuire gli investimenti in ricerca e innovazione? I servizi privatizzati hanno regalato agli utenti, cioè a tutti noi, il piacere di un abbassamento delle tariffe con un contemporaneo aumento dell’efficienza? O è accaduto l’esatto contrario?
Il fatto è che la modernità è il risultato della somma degli eventi passati: l’uomo è arrivato sulla luna perché ha scoperto la ruota, non è passato direttamente dalla caverna all’orma del piede di Armstrong sulla superficie del nostro unico satellite. La modernità non è un prodotto ideologico, ma il frutto di un processo, di una evoluzione. Certo la storia non si ripete ma mutano le condizioni più che le situazioni: una distribuzione diseguale del reddito agli inizi del Novecento produceva effetti analoghi a quelli che osserviamo ora, un secolo dopo. Non cambia la malattia, non cambiano i sintomi, cambiano le terapie e, normalmente, si cerca di migliorare quelle più efficaci per renderle ancora più efficaci. Se le cose non stessero in questo modo, probabilmente i giovani non avrebbero avvertito negli Usa il richiamo di Sanders e in Gran Bretagna quello di Corbyn. Sembra che il cavernicolo inglese sia stato apprezzato dal settanta per cento dell’elettorato sotto i ventiquattro anni, cioè dai più classici nativi digitali. E certo a loro non possiamo impartire lezioni di modernità.