-di ANTONIO MAGLIE-
Questo 2 giugno ha un significato particolare: arriva esattamente sei mesi dopo il referendum del 4 dicembre in cui è stata bocciata l’impresentabile proposta di revisione costituzionale avanzata da Matteo Renzi. Gli italiani, insomma, hanno difeso l’esito di quell’altro referendum di settantuno anni fa quando scelsero la Repubblica così creando le premesse per la nascita di una Carta che non sarà perfetta ma è decisamente migliore delle approssimative rivisitazioni sollecitate e, purtroppo, in alcuni casi, accettate, negli ultimi diciassette anni. Perché, ormai è evidente a tutti, le manipolazioni realizzate hanno solo peggiorato la Costituzione, certo non migliorata. Si potrebbe quasi dire che l’Italia di oggi ha cercato qualche motivo di speranza nell’Italia di ieri.
Nel suo ultimo, bel libro (“Populismo 2.0”, Einaudi) Marco Revelli ha scritto a proposito di quel voto: “Le parti dolenti della nostra società, i settori più fragili e più provati, il mondo del lavoro, i ceti medi impoveriti, quelli che stanno fuori dalle narrative di potere, sentono la Carta Costituzionale come “loro”: un ombrello e una protezione sotto cui ripararsi. È quanto può fare in buona misura, la differenza in un progetto di ricostruzione di una politica per il futuro”.
È possibile che le cose stiano così e in parte probabilmente lo sono. Ma se nell’urna in buona misura le “fedeltà politiche” si sono dissolte, resta, però, il dato di fatto di un orizzonte politico a sostegno del “no” alla revisione troppo eterogeneo per non pensare che si sia trattato soprattutto di un “no” a Renzi, di un “rifiuto a prescindere” nei confronti di una proposta che veniva dal cuore del potere, nonostante i tentativi dell’allora presidente del consiglio (uomo cresciuto all’ombra del potere come la sua biografia illustra ampiamente) di presentarsi come qualcosa di “diverso”, di “altro”. Il “no” di sei mesi fa, difendendo il risultato di quel che era venuto fuori dal referendum di settantuno anni fa, ha semplicemente denudato il re o l’apprendista stregone intento a ricercare la pozione magica (attraverso il combinato disposto di legge elettorale e revisione costituzionale) per regalarsi una lunga vita.
Ma se è complicato considerare quel voto come una consapevole scelta a difesa della Costituzione, allo stesso tempo non si può negare che quel voto obblighi, proprio partendo dalla Costituzione, a elaborare un progetto di ricostruzione della politica perché da un quarto di secolo ormai siamo immersi negli slogan semplicistici e strumentali di populismi di diversa foggia ma non diversissimo colore, da quello “televisivo” di Berlusconi, a quello cibernetico di Beppe Grillo, a quello di “lotta e di governo” di Renzi e il fatto che i tre abbiano trovato l’ accordo sulla nuova legge elettorale (imbarcando anche Salvini, un’altra faccia del neo-populismo) probabilmente non è casuale.
Nell’ultimo numero della nostra rivista, Rino Formica ha spiegato (partendo dalla contestazione di quella revisione dell’articolo 81 della Costituzione che ha introdotto il pareggio di bilancio) che tra le diverse velocità che rendono complicata l’integrazione europea, quella più delle altre condizionante riguarda il modello sociale di democrazia: l’Unione non ne ha uno unificante e condiviso. L’Italia ce l’ha ed è quello indicato in Costituzione e che si esalta proprio nell’articolo 1. La ridefinizione di un progetto politico non può che partire da qui, soprattutto per le forze di sinistra.
Nel suo libro, Revelli cita alcuni dati. Ad esempio uno studio della Mc Kinsey che spiega come dal 2005 al 2014 nei venticinque Paesi economicamente avanzati una percentuale tra il 65 e il 70 per cento della popolazione (cioè tra 540 e 580 milioni di persone) ha visto diminuire il proprio reddito; l’Italia è al vertice della classifica: il 97 per cento delle famiglie è più povero. Non solo. Perché c’è poi un altro studio che spiega come in un ventennio tra i 120 e i 200 miliardi all’anno siano passati nel nostro paese dalle buste-paga dei lavoratori ai profitti; un processo redistributivo al contrario che conferma solo quello che ebbe a dire con grande chiarezza il ricchissimo finanziere Warren Buffet: “La lotta di classe è finita e l’abbiamo vinta noi”.
Tutto questo è ovviamente carburante per quei populismi che attraverso slogan facili e orecchiabili come certe canzoni pop portano acqua al mulino della proposta elettorale di personaggi estremamente lontani, per storia personale e formazione culturale, dalle persone che dicono di voler favorire (Trump è l’esempio più luminoso). La realtà è che i problemi delle persone si sono trasformati in narrazione populista perché chi avrebbe dovuto (la sinistra) tradurli in narrazione popolare ha ceduto il campo, abbandonato il terreno di gioco. Chi storicamente interpretava e veicolava le rabbie trasformandole in conflitto sociale, quindi in soluzione politica e, infine, in azione di governo ha accettato una posizione culturalmente subalterna dando per scontato che tutto era perduto e che non rimaneva altro da fare che limitare i danni mescolandosi e confondendosi nel grande flusso del pensiero dominante. Ripartire dal 2 giugno significa ritrovare quello spirito inflessibile che induceva, ad esempio, Pietro Nenni a intravedere solo nel trionfo della Repubblica il segno positivo di una Italia diversa. Significa ritornare al senso vero di una Costituzione, a quell’anima sociale che certo non disponeva il trasferimento di duecento miliardi dalle buste-paga ai profitti, semmai l’esatto contrario.