-di SANDRO ROAZZI-
È il caso di dire che piove sul bagnato. Dopo la certificazione dell’Istat di ieri sulla fine delle tradizionali classi sociali sostituite però da un processo di frantumazione incessante, oggi è l’Inps a spegnere le residue illusioni sugli andamenti dell’occupazione dopo la cura post-recessione. Nel primo trimestre 2017 infatti il saldo positivo, risultante dal rapporto fra cessazioni del rapporto di lavoro e nuove attivazioni, registra un misero +17 mila unità. Erano più di 40 mila lo scorso anno e oltre 400 mila nel 2015, ovvero all’alba degli incentivi oggi cessati. Rispetto a quello del 2016 questo trimestre accusa una flessione del 58%.
Insomma dopo la “scossa” delle incentivazioni che andava comunque data in coda ad una recessione interminabile, sembra che nessuno si sia più premurato di individuare politiche economiche e del lavoro da “seconda fase” e che quindi tutto si sta uniformando alla bassa crescita ed al clima di perduranti incertezze.
In compenso tornano a dominare i contratti a tempo determinato che ricominciano a sostenere il mercato del lavoro: 322 mila nel primo trimestre del 2017. A conferma che la precarietà è una caratteristica del nostro sistema economico difficile da estirpare. Se si aggiunge la percezione di un ritorno del lavoro nero si può stendere un pietoso velo sugli inviti all’ottimismo e sulla caccia ai profeti di sventura. Con i piedi per terra possiamo invece dire che la situazione resta difficile e che serve un grande salto di qualità nelle politiche economiche e nel confronto su di esse.
Anche perché se il saldo che riguarda i cosiddetti posti fissi è così esiguo, non si può ignorare che la causa è anche quella di un aumento dei licenziamenti. Alcuni dei quali dettati dal perdurare di crisi e ristrutturazioni, altri e non pochi dalle conseguenze dell’innovazione tecnologica. L’esercito dei robot è in marcia, tanto per parafrasare un gergo che oggi va di moda.
Frantumazione sociale e precarietà sono e restano sfide attuali. E naturalmente non condizionano solo l’attività economica ed il tenore di vita della nostra popolazione ma anche pilastri della vita collettiva come ad esempio il welfare. Non è un caso che negli ultimi tempi si sono moltiplicati a livello aziendale accordi sulla produttività e sul welfare aziendale, poco meno di ventimila si dice, che dimostrano come a differenza delle nostre élite politiche chi sta in campo cerca di arginare le falle del sistema economico e sociale come può. Ma al tempo stesso probabilmente coltiva idee e modalità nuove da testare nel mondo del lavoro che, comunque vada, possono essere utili per il futuro.
Insomma se non si può far conto della progettualità quasi inesistente della nostra classe dirigente, almeno c’è un dinamismo sia pur frammentario e poco conosciuto nel tessuto economico e sociale che non si arrende.
Questa vitalità aspetta ovviamente risposte politiche di spessore e lungimiranti a livello nazionale. La sensazione che si sia perso tempo davvero prezioso che viene anche dalla lettura dei dati Inps dovrebbe spronare a rimettere al centro della discussione le questioni di fondo del nostro futuro economico e sociale. Magari con qualche… approssimazione anche di tipo etico, visto che valori come la coesione, l’equità, la solidarietà, sembrano essere confinati nell’angolo delle preoccupazioni politiche. Ed invece potrebbero fare un po’ di luce su quel che dobbiamo volere e fare.