39 anni alla ricerca della verità

-di PAOLO RUSSO-

A 39 anni dal rapimento e l’uccisione dell’On. Aldo Moro, avvenuta dopo 55 giorni di sequestro, la verità non è stata ancora accertata. O, meglio, quella verità finora accreditata, ma soprattutto istituzionalizzata, viene scalfita col passare degli anni e col proseguo delle indagini. Non sono bastati i tanti processi, le tante scoperte, le testimonianze e le indagini a far luce su quello che è uno dei più grandi misteri che un pezzo d’Italia non riesce a digerire. Uno, per lo spessore della figura di Moro, sia come persona che come uomo politico. Due, per la miriade di collegamenti che portano il caso Moro a legarsi con diversi personaggi e diverse organizzazioni oscure della storia d’Italia, una su tutte la P2, ma senza dimenticarci dei servizi segreti. Tre, i silenzi e le menzogne, tra cui quelle marchiate Repubblica Italiana. Una repubblica democratica in cui, come purtroppo siamo abituati a vedere, in certe occasioni lo stato di diritto viene brutalmente soppresso “per una presunta ragion di stato”.

Gli anni ’70 erano anni difficili, molto difficili. Per i poveri, per gli studenti, per i lavoratori, per i disoccupati, per le donne. Anche per lo Stato. Applicarsi per risolvere tutte queste esigenze contemporaneamente non è stato facile e le modalità utilizzate sono spesso entrate in contraddizione. Ma erano gli anni ’70, i quali presero piede impregnati della carica anti-democratica e terroristica del “Piano Solo” (1964) e della strage di Piazza Fontana (1969) e sempre all’erta dal pericolo comunista, anche in seguito al ’68 studentesco e all’autunno caldo. Gli anni ’70 cominciano col fallito golpe Borghese, passano per lo Statuto dei lavoratori, il referendum sul divorzio, la strage di Piazza della Loggia a Brescia, la strage del treno Italicus, il Diritto di famiglia, il movimento del ’77, la legge sull’aborto. Il partito armato (sia nero che rosso), la soppressione di alcuni diritti di libertà in favore della sicurezza collettiva, la strategia della tensione, gli anni di piombo, le Brigate Rosse e, ahimè, Aldo Moro. Dico “ahimè” perché sarebbe potuto essere uno dei tanti uomini politici del tempo, con qualche particolare merito in più, se vogliamo. E invece, siamo qui a parlarne per un chiaro motivo. Perché, anche grazie a lui, scopriamo oggi quanto questo Stato abbia in molte occasioni mancato di lealtà, affidabilità, democrazia. Quello stesso Stato di cui Moro avrebbe voluto allargare la base democratica, conscio del fatto che la democrazia vi fosse, ma non era compiuta. Uno Stato degnamente erede del vecchio regime fascista che coprì la verità, diffamò pubblicamente un suo degno e leale servitore e, al contempo, ingannò i suoi stessi cittadini.

Se già di per sé è difficile scoprire la verità sul caso Moro, ancor di più lo è scoprire cosa hanno fatto gli uomini di stato in quella situazione. E le due cose sono così strettamente connesse che, per un interesse o per un altro, da 39 anni, la verità è continuamente occultata. Chi sa non parla, chi sa mente. L’unica speranza è quella di vedere che i cittadini italiani si interessino non solo al caso Moro nello specifico, ma a tutto ciò che il nostro paese ci ha tenuto nascosto. Tante, troppe stragi. Tanti, troppi omicidi. Troppe cose di cui non si sa nulla, o quasi. Cose che rimarranno nella sola memoria di chi ha perso qualche caro in uno dei tanti tragici eventi italiani, o di qualche storico. L’interesse, la curiosità, il dialogo, il dibattito possono accelerare questo processo verso la verità. Non è solo compito della magistratura o delle commissioni parlamentari, portare alla luce la verità. Alla base c’è la sensibilità nei confronti di ciò che siamo stati, ciò da cui veniamo e, non per ultimo, ciò che ci aspetta. Quindi perché non muoversi? Perché continuare ad abbassare la testa e far finta che nulla che ci riguardi sia successo? Questo è un oltraggio alla nostra memoria, quella di noi come persone e come cittadini di uno Stato democratico e libero.

Per più di trent’anni abbiamo lasciato la storia di Moro, come diverse altre, nel dimenticatoio. Una storia che si è voluto dimenticare. Non solo, volutamente, dalle istituzioni, ma dai cittadini stessi. Quanti sanno chi è o conoscono qualcosa sulla figura di Aldo Moro, uno dei più noti padri costituenti, prima ancora che ministro e presidente del consiglio. Quel Moro che introdusse nella nostra Costituzione il “riconoscimento” dei diritti dell’uomo, in aperto contrasto con la “concessione” dei diritti del vecchio Statuto Albertino. Una finezza, quest’ultima, che delinea il perimetro della sua identità culturale e intellettuale. Il Moro politico e statista, colui il quale promosse la modernizzazione della scuola italiana, la parità del diritto allo studio, l’allargamento della base democratica. Una democrazia incompiuta non poteva essere definita democrazia fin quando ad essa non avrebbero potuto partecipare tutti indistintamente. Non bastavano i socialisti portati al governo nel ’63. Ora anche i comunisti, perché bisognava includere tutti, perché tutti erano la democrazia. E Moro seppe farlo con il tempo e il dosaggio giusto, perché sapeva in che condizione si trovava il paese. Sarà proprio questa sete di democrazia, suo malgrado, a farlo venir meno. Odiato, abbandonato, malvisto. Paradossalmente, sarà proprio la democrazia incompiuta ( o quasi compiuta) a farlo fuori.

Oggi lo sappiamo quasi per certo. Le indagini, seppur con fatica, stanno andando avanti, anche se noi non lo sappiamo, non lo vediamo. Qualcuno, per fortuna, ha capito che il mondo di oggi, per fermarsi a riflettere un attimo, ha bisogno di determinati stimoli. Con il suo “pacchetto” di informazioni estrapolate dalla “Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro”, l’On. Gero Grassi se ne va in giro per l’Italia a raccontare questa storia d’Italia. Storia non solo intesa come metodo di approccio, ma anche come racconto, che ti intrattiene e ti tiene col fiato sospeso fino all’ultima parola. Ogni frase porta a galla un nuovo pezzo di questo intricato puzzle, un nuovo stralcio di verità. In casi come questo, una sola parola, un solo nome, anche una sola congiunzione può dare un significato anziché un altro, può far emergere la verità o il falso. Grassi, con estrema accuratezza ha ben chiaro qual è il suo ruolo in questo scenario non solo di natura politica, ma anche umana. Dopo anni di studio sul caso Moro, il desiderio di giustizia, non solo per Moro, ma per l’Italia intera, lo ha spinto a parlare nei confronti di chi realmente deve sapere. Noi cittadini. Il suo nobile ruolo è quello di parlare a noi che non sappiamo e che non possiamo sapere. Un intermediario della verità che, mano a mano, si sta facendo strada. Grazie a lui e anche grazie al lavoro dell’intera commissione bicamerale, presieduta dall’On. Giuseppe Fioroni e di cui fa parte anche Miguel Gotor, storico e scrittore, autore di “Lettere dalla prigionia” (Einaudi, 2008) in cui l’autore fa una disamina eccellente sulla questione delle lettere di Moro. Un punto in particolare mette in luce la situazione sociale, ma soprattutto psicologica, del paese e che si ricongiunge con l’idea già accennata che questa è una storia che si è voluto dimenticare. Teniamo conto che siamo nel ’78, a cavallo tra i movimenti del’77 e quello che viene definito il periodo del “riflusso”. Gotor scrive: “Dal punto di vista psicoantropologico, molti italiani sembravano percorsi in quei giorni da una compulsiva tensione verso il sacrificio rituale, l’attesa di un gesto violento e radicale che ristorasse, purificasse e ricomponesse i rapporti malati tra le generazioni”. (Si veda M. Gotor, Le possibilità dell’uso del discorso nel cuore del terrore: della scrittura come agonia, Lettere dalla prigionia, p. 205.)

Dare una base democratica a queste indagini è il nostro dovere morale. Sostenere e spianare la strada verso la giustizia e la libertà, consci e fieri del fatto che un giorno ce la faremo, noi italiani, ad allargare il nostro senso di libertà e democrazia, celebrando la verità della nostra storia e non più vergognandoci di segreti di stato oscuri e compromessi. La scomparsa di Aldo Moro come uomo politico ha dato fine ad un’era e ne ha aperta un’altra, di certo non migliore, la cui conclusione è a noi tutti nota. Non è un caso che il 9 maggio ’78 venga da taluni considerato come il collasso della prima repubblica, 14 anni prima di Tangentopoli. Sembra quasi che Moro si riferisse a questo quando in una lettera al segretario della DC, Benigno Zaccagnini, scrisse: “Io ci sarò come un punto irriducibile di contestazione e di alternativa, per impedire che della DC si faccia quello che se ne fa oggi”. Quel che è stato, da allora in poi, lo sappiamo bene.

Concludo con una frase di speranza. Non una speranza qualunque, ma la speranza di un uomo che sapeva di “dover” morire. Una frase che era, ed è tutt’oggi, una promessa. Una promessa di giustizia. Nella lettera alla DC del 28 aprile, Moro scrive: “Le cose saranno chiare, saranno chiare presto”.

 

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