Go Beyond: un documento del ’58 e l’istruzione immutata

-di ANTONIO MAGLIE-

L’Italia è un Paese piuttosto strano: avendo poca cura della propria memoria, è portato a considerare i problemi posti dall’attualità come inediti, originali, prodotti di un presente che ha tradito le attese. Questa tendenza ad attualizzare evitando di storicizzare ci porta a sottovalutare l’evoluzione delle cose: la dinamica del processo scompare e trionfa la contemplazione del risultato contingente. Al contrario l’analisi del processo potrebbe aiutarci a capire non solo i vizi delle classi dirigenti che hanno guidato il Paese dalla fine della seconda guerra mondiale a oggi (tra quelle della Prima e della Seconda Repubblica c’è poca differenza: tutti sono più o meno figli della Prima o in quanto “ballerine” di seconda linea catapultate improvvisamente al centro del proscenio da tangentopoli, o utilizzatori degli stessi difetti che semmai oggi, in nome di un “nuovismo” superficiale e strumentale, criticano con violenza proclamandosi gli alfieri di una Nuova Italia). In realtà basterebbe rileggere alcuni “reportage” di un grane protagonista della nostra letteratura, Ugo Foscolo, per renderci conto che esiste una linea rossa che lega le generazioni e che si dipana quantomeno dalla fine del Settecento-inizi Ottocento.

Una recente indagine dell’Ocse ha rivelato che la scuola dell’obbligo italiana è quella che in Europa prepara meglio perché discrimina meno da un punto di vista sociale: da noi conta poco il rango economico e grazie alla stragrande maggioranza degli insegnanti (alcuni su Facebook a volte scantonano ma si sa: il web è una bestia indomabile), anche il colore della pelle o la provenienza territoriale. Come si usa dire: sino alla terza media, la nostra scuola è inclusiva. Poi cominciano i dolori. Non siamo stato in grado di migliorare i nostri licei tanto è vero che seicento docenti universitari hanno scritto una lettera aperta per lamentarsi del processo di degrado a cui è sottoposta la lingua italiana. Non siamo stati in grado di realizzare un nuovo modello di scuola professionale che non fosse come la vecchia, discriminante nel senso che le scuole “nobili” erano riservate ai rampolli delle classi favorite mentre i figli di operai e contadini venivano indirizzati verso i mestieri dei padri. Non abbiamo adeguato all’evoluzione della tecnologia le scuole tecniche. E contemporaneamente ci lamentiamo per il fatto che la scuola è scarsamente in rapporto con il mondo del lavoro anche se poi ci si accorge (attraverso diverse indagini) che a far la differenza se non è il calcetto, come ci spiega l’illuminato ministro del lavoro Giuliano Poletti, è sicuramente la famiglia (sotto forma di familismo) e i rapporti clientelari con la conseguenza che siamo uno tra i paesi in Europa con il più alto numero di manager non laureati.

Poi capita di trovare nel nostro archivio, grazie alla bravissima Ilaria Coletti, un paio di documenti del 1958 precedenti alla tornata elettorale nei quali il Psi pone al centro dell’attenzione proprio la scuola. E la chiede “democratica e moderna”, cioè non di classe; indirizzata a sviluppare l’area della ricerca scientifica attraverso la predisposizione di mezzi economici adeguati; l’applicazione della norma che pone al primo posto la scuola pubblica evitando di distrarre fondi a favore di quella privata che si deve finanziare da sola; l’attuazione del principio costituzionale che i “capaci e meritevoli” devono poter accedere all’alta istruzione attraverso la creazione di Convitti (o case dello studente) e borse di studio (o pre-salario); la realizzazione di una riforma universitaria che fosse capace di valorizzare proprio lo sbocco professionale; l’adeguamento numerico del corpo dei ricercatori e degli assistenti; addirittura un “programma di emergenza per la ricerca scientifica”. Tutto questo è rintracciabile nel documento del Comitato centrale del 10-12 febbraio del 1958 e in uno della direzione dello stesso anno. Siamo fermi ancora lì a conferma che, come sosteneva Ennio Flaiano, non c’è nulla di inedito nella stampa. Anzi, siamo andati ancora un po’ indietro tra Alfani e compagnia assortita che reclamano continuamente soldi per le scuole private (religiose) e Gelmini che hanno letteralmente smantellato la “categoria” (il Psi all’epoca ne voleva una ufficiale, strutturata per legge, un “ruolo”) dei ricercatori che o sono andati via o si sono dedicati ad altro. Confermando quel che dice amaramente un amico docente: la mission dell’università è creare disoccupati.

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