16 marzo 1978: l’Italia travolta dal caso-Moro

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Alle 9 del 16 marzo 1978 sull’Italia calò una cappa di piombo. La notizia fece il giro di Roma, dell’Italia e del mondo in pochi minuti. Un agguato in Via Fani, quartiere Trionfale; la “potenza geometrica”, come l’avrebbero definita più tardi, delle Brigate Rosse verniciò di sangue la strada. In pochi minuti, sotto i colpi del commando composto da Prospero Galinari, Valerio Morucci, Raffaele Fiore, Franco Bonisoli, Mario Moretti, Alessio Casimirri, Alvaro Loiacono, Barbara Balzarani, Bruno Seghetti e Rita Algranati caddero Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Francesco Zizzi, Giulio Rivera e Raffaele Iozzino, l’intera scorta del presidente della Dc, Aldo Moro. Cominciavano così i cinquantacinque giorni più lunghi della Repubblica. Moro veniva inghiottito dalla “Prigione del Popolo” collocata in via Montalcini (secondo le dichiarazioni di Morucci) anche se con una certa periodicità sono stati sollevati dubbi o ipotesi alternative. L’ultima commissione parlamentare sul caso Moro, presieduta da Giuseppe Fioroni, ha recentemente dirottato l’attenzione su un comprensorio della Balduina, via Massimi 91, all’epoca di proprietà della banca Vaticana, lo Ior.

L’Italia già abbondantemente insanguinata dagli Anni di Piombo conosceva in quel mese di marzo il suo culmine. Il comunicato numero 1 delle Br, quello in cui si annunciava che Moro era nelle mani dell’organizzazione terroristica e che sarebbe stato giudicato da un “tribunale del popolo”, fece capire al paese che in quella strana guerra dichiarata da una sola parte la posta in palio era altissima, era la democrazia. Moro quella mattina si stava recando alla Camera per il dibattito sulla fiducia al quarto governo Andreotti. Quell’esecutivo era il prodotto della sua ultima costruzione politica: la solidarietà nazionale, l’associazione del Pci alla maggioranza di governo poco più di trent’anni dopo la rottura dell’unità antifascista. I più ritenevano che di lì a poco sarebbe stato eletto presidente della Repubblica in sostituzione di Giovanni Leone. Ma le Br mescolarono le carte del destino e il comunicato numero 9 del 5 maggio provvide a indirizzarlo definitivamente da tutt’altra parte: “Dopo l’interrogatorio e il processo popolare al quale è stato sottoposto, il presidente della Democrazia Cristiana è stato condannato a morte”: quattro giorni dopo, in un garage, la sentenza venne eseguita. Lo fecero sdraiare sul bagagliaio di una Renault rossa, lo coprirono con una coperta e gli spararono. La commissione Fioroni ora sostiene che lo freddarono in piedi o seduto sul bagagliaio. In realtà, un dettaglio ormai irrilevante. Furono giorni difficili, in cui la politica si divise. Da un lato gli intransigenti che negavano la possibilità di una trattativa, dall’altro i sostenitori del negoziato per salvare la vita di Moro con i socialisti in prima fila. Al di là delle intenzioni, in tanti provarono a tessere la tela che avrebbe dovuto riportare il presidente della Dc vivo a casa. Una trama che abbiamo provato a ricostruire negli altri pezzi che oggi pubblichiamo su questo blog.

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