Donne e Resistenza: a Roma “fucilate” per il pane

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-di STEFANIA CONTI-

È stata una estenuante battaglia, quella della donne durante la seconda guerra mondiale. Combattuta giorno per giorno nelle loro case, nelle città, nelle campagne. Contro la fame, contro le bombe, contro chi voleva strappare – e ha strappato – i loro figli, fratelli, mariti, fidanzati, papà.

Tutte insieme, migliaia e migliaia di mogli, sorelle, fidanzate, figlie. Un esercito femminile che non solo ha sostituito gli uomini nelle fabbriche e negli uffici, ma ha tirato avanti le famiglie, ha nascosto i suoi maschi, gli alleati arrivati clandestinamente nelle città, gli ebrei, i partigiani. Parecchie hanno fatto la staffetta. Altre –meno – hanno imbracciato le armi.

Ma soprattutto hanno combattuto ogni giorno contro la fame nera che attanagliava gli italiani dopo l’8 settembre. E se qualcuna molto ricca o connivente con i tedeschi e i fascisti, è riuscita a strapparsi di dosso quell’orco, in quell’esercito di disperate, c’erano tutte. Operaie, mondine, impiegate e contadine, la maestra come la portiera, la contessa e la cameriera. Unico imperativo : portare a casa il cibo. Con l’astuzia o con la violenza, se necessario. Ma anche questa fu resistenza.

A Roma, i mesi dell’occupazione nazista furono spietati. Si mangiava tutto quello che era appena appena commestibile. Si faceva la fila per le cipolle, le rape, i broccoli. Il pane, poco, era solo nero. Quello bianco, un miraggio riservato per lo più alla mensa dei tedeschi e dei fascisti.

Dopo l’attentato di via Rasella del 23 marzo 1944 , la rappresaglia nazista non si ferma alla strage delle Fosse Ardeatine, vuole colpire il maggior numero di persone possibile. Così, per ordine diretto del generale Maeltzer, la razione di pane dei romani viene ridotta dai già miseri 150 a 100 grammi al giorno. Oltretutto è pane nero, spesso ammuffito. Non solo. A metà aprile, a causa delle difficoltà dei trasporti e dei disordini creati dalla lotta partigiana, la distribuzione ufficiale subisce un’ulteriore diminuzione; a quel punto ci si rende conto che non solo circolano 50.000 carte per il pane falsificate, ma anche che ingenti quantità di farina sono stati venduti di contrabbando dagli organi addetti alla distribuzione

Le donne romane, esasperate, si ribellano. A volte sono i gruppi femminili della Resistenza a organizzare la protesta. Ma più spesso spontaneamente, lanciando il passaparola, le casalinghe si ritrovano in strada – bambini al seguito – per assaltare i forni, saccheggiare camion, fronteggiare gli occupanti, armate solo delle sporte da riempire di generi alimentari. La rivolta dilaga nelle borgate popolari, ma anche nei quartieri della piccola e media borghesia, obbligando i nazifascisti a scortare i convogli e presidiare i punti di distribuzione.

Si comincia con un forno a via dei Giubbonari. Le donne sfondano la porta e prima che arrivi la polizia scappano con il grembiule pieno, con la borsa colma, con qualunque cosa possa essere riempito. Si continua con Borgo Pio, dove un camion di farina scortato dai militi fascisti viene addirittura assaltato. Tale è l’improvvisa e inaspettata irruenza delle assalitrici, che i militi possono fare ben poco e si trovano il camion completamente saccheggiato.

Il confine tra legalità e illegalità, tra protesta antifascista e la necessità di dare soddisfazione ai bisogni più elementari , si faceva sempre più esile”, scrive Miriam Mafai nel suo splendido “Pane nero”. “Tutto era lecito pur di procurarsi da mangiare, pur di portare a casa le sigarette per gli uomini che vivevano da reclusi ormai da mesi”.

In questo clima disperato si verifica un episodio che ancora oggi, a distanza di più di 70 anni, è un po’ misterioso.

Il 7 aprile 1944 decine di persone si ritrovano di fronte al mulino Tesei nel quartiere Portuense per chiedere pane e farina; si diceva che quel mulino producesse pane destinato ai militari tedeschi. Le donne dei quartieri limitrofi (Ostiense e Garbatella) avevano scoperto che il forno panificava pane bianco e che probabilmente aveva grossi depositi di farina. I cancelli del forno vengono sfondati e le donne riescono ad entrare. Il direttore del forno, forse d’accordo con quelle disperate, le lascia fare ma qualcuno avverte la polizia tedesca che arriva quando le donne sono ancora sul posto. A quel punto i militi fascisti presenti chiedono l’intervento delle SS, che arrivano subito e bloccano la strada. Molte donne riescono a scappare, ma dieci di loro vengono prese, afferrate di forza, portate sul ponte e lì fucilate in fila, contro la ringhiera.

Per una di loro c’è il fondato sospetto che sia stata violentata: la trovano separata dalle altre, nuda e piena di lividi. Lo stupro, un atroce classico di tutte le guerre.

A monito della popolazione, i tedeschi ne lasciano i cadaveri sulla spalletta del Ponte di Ferro fino alla mattina dopo, quando alcuni lattonieri e sfasciacarrozze della zona vengono costretti a caricare le povere salme su di un camion. Da allora non si è mai saputo dove siano state portate e sepolte. Né si è mai saputo altro che i nomi. Chi erano, quanti anni avevano, da dove venivano, niente. Oggi una lapide le ricorda proprio lì, sul Ponte di Ferro.

Ultima vittima di queste proteste fu, il 3 maggio successivo, una madre di sei figli: Caterina Martinelli, mentre ritornava a casa con la sporta piena di pane dopo l’assalto a un forno nella borgata Tiburtino III. Fu falciata da una raffica di mitra dei militari della Pai (la Polizia Africa Italiana che funge da servizio d’ordine per conto del Governo fascista repubblicano). Cade sul marciapiede con sei sfilatini nella borsa e una figlia piccola in braccio. L’immagine plastica e tremenda di una madre disperata.

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