Quando la crescita c’è ma… non basta

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-di SANDRO ROAZZI-

Quando si scopre che per tirare un sospiro di sollievo basta arrivare allo 0,9% di Pil nel 2016, è facile pensare che nessuno vuole (o è in grado) di infierire sulle debolezze della nostra economia che paiono destinate a prolungarsi soprattutto a causa del… ring politico che propone solo scontri e personalismi.

E’ il caso dei commenti di questi giorni, ultimo quello dell’Ocse che conferma, bontà sua, il Pil allo 0,9% e prevede per i prossimi due anni una crescita all’1%. Solo questa previsione dovrebbe preoccupare in quanto appare assolutamente insufficiente per determinare una svolta occupazionale e per segnalare il superamento della più grave carenza oggi presente nel ciclo economico, vale a dire l’assenza di investimenti corposi e conseguentemente il ritorno della fiducia nelle vicende economiche e sociali.

L’Ocse fa di più in realtà: punta il dito sugli arretramenti in tema di produttività che stonano e non di poco con quello che avviene in Europa e nel resto del mondo. Va ricordato però che i cali di produttività vengono da lontano, la lunga recessione li ha per così dire incancreniti, la sottovalutazione della necessità di tornare a politiche industriali e non solo (si pensi allo stato della Pubblica Amministrazione) di tipo nuovo ma incisive ed impostate strategicamente ha fatto il resto.

Con la conseguenza, fra le altre, di perpetuare una situazione di bassi salari e di consumi assai modesti.

Anzi secondo l’Ocse occorrerebbe una politica economica di tipo keynesiano che assomigli però ad una vera e propria sferzata. Come definire altrimenti i suggerimenti che puntano a indicare nei trasporti, nelle opere infrastrutturali, nell’edilizia antisismica, nelle spese per scuola ed assegni familiari delle priorità non eludibili? Con il corollario di prestare maggiore attenzione all’aumento della povertà delle famiglie: quelle con due figli sono passate dall’essere il 2,3% nel 2006 all’8,6% nel 2015. Se si aggiunge che gran parte della disoccupazione italiana è costituita da quella di lunga durata il quadro non è certo esaltante.

Del resto anche dalle considerazioni dell’Ocse si evince che in definitiva la nostra economia resta a galla soprattutto per la “protezione” degli interventi della Bce e per l’aumento di spesa con l’aggiunta di alcuni benefici ricavati ad esempio dal Jobs act ma che come si sa bene si stanno esaurendo di pari passi con gli incentivi che l’affiancavano.

Tale scenario impone una riflessione che non è certo confortante: se si vuole restare in Europa, e se l’Europa non si sgretola beninteso, l’Italia è destinata a sperimentare ancora politiche di rigore, meno brutali del passato, ma che pur sempre presenteranno i conti ad imprese e famiglie. Il debito pubblico, sempre secondo i dati Ocse, ancora nel 2018 sarà superiore al 132% sia pure in lieve calo. Padoan ha ribadito l’intenzione di procedere nelle privatizzazioni e nel controllo della spesa ma la sensazione è che il percorso sarà più accidentato.

Se siamo in una fase di relativa crescita dunque, rischiamo comunque di rimanere il fanalino di coda dei Paesi europei più dinamici e questo fatto si ripercuoterebbe negativamente sui mercati che ancora oggi dettano legge ma ancor più sul peso politico dell’Italia nell’Unione europea proprio quando tutti i maggiori nodi della sua esistenza stanno venendo al pettine. Servirebbe una consapevolezza del momento di svolta che stiamo vivendo in particolare nella classe politica e nelle forze che ritengono di essere le più rappresentative. Ma la stessa discussione sul come essere ad esempio “sinistra” appare davvero povera oscillando fra lotte di potere e prese di distanze fin troppo superficiali dal liberismo e talvolta anche dal riformismo. Progetti, identità culturali, gruppi dirigenti che si segnalano per convinzioni comuni intanto latitano. Ed è forse questo il problema più impegnativo per tutti da affrontare. Ma anche il quando ed il come per ora restano un mistero.

antoniomaglie

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