Un mondo di “esclusi”: in 8 possiedono quanto la metà più povera

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-RAPPORTO OXFAM*-

La crisi globale della disuguaglianza prosegue senza tregua:

  • Dal 2015 l’1% più ricco dell’umanità possiede più ricchezza netta del resto del pianeta
  • Oggi otto persone possiedono tanto quanto la metà più povera dell’umanità
  • Nei prossimi 20 anni 500 persone trasmetteranno ai propri eredi 2.100 miliardi di dollari: è una somma superiore al PIL dell’India, Paese in cui vivono 1,3 miliardi di persone
  • Tra il 1988 e il 2011 i redditi del 10% più povero dell’umanità sono aumentati di meno di 3 dollari all’anno mentre quelli dell’1% più ricco sono aumentati182 volte tanto
  • Un AD di una delle 100 società dell’indice FTSE guadagna in un anno tanto quanto 10.000 lavoratori delle fabbriche di abbigliamento in Bangladesh
  • Negli Stati Uniti, secondo le nuove ricerche condotte dall’economista Thomas Piketty, negli ultimi 30 anni i redditi del 50% più povero sono cresciuti dello 0%, mentre quelli dell’1% più ricco sono aumentati del 300%Dalla Brexit al successo della campagna presidenziale di Donald Trump, da una preoccupante avanzata del razzismo alla sfiducia generalizzata nella classe politica, sono tanti i segnali che indicano come sempre più persone, nei Paesi industrializzati, non siano più disposte a tollerare lo status quo. E del resto perché dovrebbero, se l’esperienza ci dice che lo stato attuale delle cose produce stagnazione dei salari, precarietà del lavoro e un divario sempre più marcato tra abbienti e non abbienti? La sfida del momento è costruire un’alternativa positiva, non una che accresca le divisioni.
  • Nei Paesi poveri il quadro è altrettanto complesso e non meno preoccupante. Negli ultimi decenni centinaia di milioni di persone si sono emancipate dalla povertà, e questa è una conquista di cui il mondo deve andare fiero; eppure ancora oggi una persona su nove soffre quotidianamente la fame. Se la crescita che si è registrata tra il 1990 e il 2010 fosse stata più favorevole alle classi più povere, oggi 700 milioni di persone in più (la maggioranza delle quali donne) non vivrebbe in povertà. Le ricerche rivelano che la povertà estrema potrebbe di fatto essere ridotta di tre quarti subito e con risorse già esistenti, semplicemente aumentando l’imposizione fiscale e tagliando la spesa militare e altre spese regressive. La Banca Mondiale afferma chiaramente che se non verranno raddoppiati gli sforzi nella lotta alla disuguaglianza, i leader mondiali non raggiungeranno l’obiettivo di eliminare la povertà estrema entro il 2030.
  • Se lasciata senza controllo, la crescente disuguaglianza minaccia di lacerare le nostre società, causa un aumento della criminalità e dell’insicurezza e pregiudica l’esito della lotta alla povertà. Più persone vivono nella paura, meno vivono nella speranza.

Questo non è però un destino ineluttabile. E non si deve lasciare che la risposta popolare alla disuguaglianza esasperi le divisioni. Un’economia per il 99% svela come le grandi imprese e i super ricchi alimentano la crisi della disuguaglianza e cosa si può fare per cambiare le cose; analizza i presupposti errati che ci hanno condotto su questa strada e ci mostra come possiamo creare un mondo più equo fondato su un’economia più umana, un’economia che trae la propria forza dalle persone, non dal profitto, e che dà priorità ai soggetti più vulnerabili.

LE CAUSE DELLA DISUGUAGLIANZA

Una cosa è fuori discussione: nella nostra economia globale, a guadagnarci di più è chi sta al vertice della piramide sociale. Le ricerche condotte da Oxfam hanno rivelato che negli ultimi 25 anni l’1% più ricco della popolazione mondiale ha goduto di redditi superiori a quanto percepito dal 50% più povero. Invece di sgocciolare verso il basso, reddito e ricchezza sono risucchiati verso il vertice della piramide ad una velocità allarmante. Perché succede questo? Le grandi imprese e i super ricchi hanno un ruolo determinante in questa dinamica.

Le grandi imprese favoriscono chi sta al vertice

Per il “big business” le cose sono andate bene: nel biennio 2015/2016 dieci tra le più grandi multinazionali hanno generato profitti superiori a quanto raccolto dalle casse pubbliche di 180 Paesi del mondo. Le imprese sono la linfa vitale dell’economia di mercato e, se il loro operato va a vantaggio di tutti, sono di cruciale importanza per creare prosperità ed equità sociale. Ma se, al contrario, operano sempre più a favore dei ricchi, i vantaggi derivanti dalla crescita economica non giungono a coloro che ne hanno maggiore bisogno. Nella loro smania di produrre alti profitti per chi sta al vertice, le grandi imprese spremono sempre più i lavoratori e i produttori e ricorrono a pratiche di elusione fiscale, evitando così di pagare imposte che andrebbero a beneficio di tutti e in particolare dei più poveri.

Lavoratori e produttori sotto pressione

Mentre i redditi degli alti dirigenti, spesso pagati in azioni, sono aumentati in maniera vertiginosa, le retribuzioni dei lavoratori e produttori hanno registrato incrementi minimi e in alcuni casi sono diminuite. L’AD della più grande azienda informatica indiana guadagna 416 volte il salario medio di un impiegato della sua compagnia; negli anni ’80 i coltivatori di cacao ricevevano il 18% del valore di una tavoletta di cioccolata, mentre oggi spetta loro soltanto il 6%. In casi estremi, per mantenere bassi i costi di produzione si ricorre al lavoro forzato o alla riduzione in schiavitù. L’Organizzazione Mondiale del Lavoro stima che i lavoratori forzati siano 21 milioni e che generino annualmente profitti pari a 150 miliardi di dollari. Tutte le maggiori aziende mondiali produttrici di abbigliamento sono in qualche modo legate ai cotonifici indiani che ricorrono abitualmente al lavoro forzato femminile. I lavoratori soggetti alle retribuzioni più basse e alle condizioni di lavoro più precarie sono prevalentemente donne e ragazze. In tutto il mondo le grandi imprese comprimono sempre più il costo del lavoro facendo sì che i lavoratori e produttori lungo le loro filiere ricevano una fetta sempre più sottile della torta: ciò acuisce la disuguaglianza e riduce la domanda.

Abusi fiscali

Uno degli strumenti utilizzati dalle società per massimizzare i profitti consiste nel pagare meno imposte possibili, e vi riescono grazie ai paradisi fiscali o forzando una competizione al ribasso tra Paesi per la concessione di agevolazioni ed esenzioni fiscali o di aliquote più basse. Le aliquote fiscali sugli utili d’impresa si riducono ovunque nel mondo e questo fenomeno, insieme alle sempre più diffuse pratiche di abuso fiscale, minimizza il volume di imposte pagate da molte grandi imprese. Si ritiene che nel 2014 Apple abbia pagato lo 0,005% sui propri profitti generati in Europa; a causa degli abusi fiscali i Paesi in via di sviluppo si vedono sottrarre ogni anno 100 miliardi di dollari. Miliardi di dollari vanno persi nei vari Paesi a causa di tregue ed esenzioni fiscali, e chi ne soffre maggiormente le conseguenze sono le persone più povere in quanto più dipendenti dai servizi pubblici che questi miliardi perduti avrebbero potuto finanziare. Il Kenya, per esempio, perde ogni anno 1,1 miliardi di dollari a causa di esenzioni fiscali concesse alle imprese, il che equivale a quasi il doppio della spesa sanitaria in un Paese in cui le donne hanno 1 probabilità su 40 di morire di parto. Che cosa genera questo comportamento da parte delle imprese? I fattori scatenanti sono due: la ricerca di profitti a breve termine per gli azionisti e l’ascesa del “capitalismo clientelare”.

Un capitalismo azionario ipertrofico

In molte regioni del mondo l’attività delle grandi imprese mira ad un unico obiettivo: massimizzare i compensi degli azionisti. Ciò significa non soltanto massimizzare i profitti a breve termine ma anche versare una quota sempre crescente di tali profitti ai proprietari delle imprese stesse. Nel Regno Unito la quota di profitti percepita dagli azionisti nel 1970 era del 10% mentre oggi è pari al 70%. In India tale quota è più modesta ma sta crescendo rapidamente e in molti casi è già superiore al 50%. Questo fenomeno è stato criticato da molti tra cui Larry Fink, AD di Blackrock (il maggiore gruppo di gestione patrimoniale al mondo) e Andrew Haldane, capo economista della Banca d’Inghilterra. I compensi sempre crescenti percepiti dagli azionisti favoriscono i ricchi (la maggioranza degli azionisti appartiene infatti agli strati sociali più abbienti) accentuando la disuguaglianza. Gli investitori istituzionali, quali i fondi pensione, possiedono partecipazioni societarie sempre più esigue: nel Regno Unito, per esempio, i fondi pensione erano titolari trent’anni fa del 30% delle azioni sul mercato mentre oggi ne possiedono soltanto il 3%. Ogni dollaro di profitto versato agli azionisti delle società è un dollaro che avrebbe potuto essere impiegato per pagare di più i lavoratori e i produttori o per versare le tasse, oppure investito in infrastrutture o innovazione.

Capitalismo clientelare

Come documentato da Oxfam nel suo rapporto “Un’economia per l’1%”31, società operanti in vari settori (finanziario, minerario, tessile, farmaceutico ecc.) usano il proprio enorme potere e la propria influenza per far sì che le normative e le politiche nazionali e internazionali siano formulate in modo da garantire loro una redditività costante. Per esempio, compagnie petrolifere hanno svolto un’intensa attività di lobbying in Nigeria, assicurandosi generose esenzioni fiscali32.

Anche il settore tecnologico, un tempo considerato relativamente “pulito”, è sempre più soggetto ad accuse di clientelismo. Alphabet, la holding a cui fa capo Google, è diventata uno dei maggiori lobbisti a Washington mentre in Europa conduce continue trattative aventi per oggetto normative anti-trust e fiscalità d’impresa33. Il capitalismo clientelare va a beneficio dei ricchi, cioè di coloro che possiedono e gestiscono le grandi società, a discapito del bene comune e della riduzione della povertà. Le piccole imprese invece lottano per far fronte alla concorrenza e i comuni cittadini finiscono per pagare di più per beni e servizi, perché devono fare i conti con i cartelli e il potere di monopolio delle grandi imprese e con i loro stretti legami con i governi. In Messico Carlos Slim, il terzo uomo più ricco al mondo, controlla circa il 70% di tutta la telefonia mobile e il 65% di quella fissa, per un valore pari al 2% del PIL.

Il ruolo dei super ricchi nella crisi della disuguaglianza

Viviamo nell’era dei super ricchi, una seconda “belle époque” o età dorata in cui sotto una superficie scintillante si nascondono problemi sociali e corruzione. L’analisi dei super ricchi condotta da Oxfam analizza tutti gli individui con un patrimonio netto di almeno 1 miliardo di dollari. I 1.810 miliardari della lista Forbes 2016, 89% dei quali sono uomini, possiedono 6.500 miliardi di dollari: tanto quanto il 70% meno abbiente dell’umanità. Oxfam ha appurato che, mentre le fortune di alcuni di questi miliardari sono frutto di talento e duro lavoro, un terzo dei patrimoni miliardari mondiali è ereditato e il 43% è riconducibile a clientelismo. Una volta accumulata o acquisita, la ricchezza assume un proprio slancio. I super ricchi hanno denaro da spendere per le migliori consulenze finanziarie relative ai propri investimenti, tanto che dal 2009 in poi le loro ricchezze sono aumentate in media dell’11% annuo. Tale tasso di accumulazione è di gran lunga più elevato di quello ottenibile dai comuni risparmiatori. Sia che si occupi di fondi speculativi o di magazzini colmi di opere d’arte o auto d’epoca, l’industria ben poco trasparente della gestione patrimoniale ha avuto enorme successo nell’incrementare le fortune dei super ricchi. Quelle di Bill Gates, per esempio, sono aumentate del 50% (pari a 25 miliardi di dollari) da quando ha lasciato la Microsoft nel 2006, nonostante i suoi lodevoli sforzi per devolverne una gran parte. Se i miliardari continuano a garantirsi rendite di tale livello, tra 25 anni potremmo vedere il primo “trillionaire” al mondo, un individuo in possesso di un patrimonio superiore ai 1.000 miliardi di dollari. In queste condizioni, chi è già ricco deve fare una notevole fatica per non arricchirsi molto di più. Le enormi fortune riscontrabili all’estremità più in alto della piramide della ricchezza e del reddito sono la prova evidente della crisi della disuguaglianza e costituiscono un ostacolo nella lotta alla povertà estrema. I super ricchi non sono però soltanto gli innocui beneficiari di una crescente concentrazione di ricchezza; al contrario, sono coloro che la perpetuano attivamente. Ciò avviene ad esempio attraverso gli investimenti. Potendosi annoverare tra i principali azionisti (specialmente di private equity e hedge funds), gli esponenti più ricchi della società si avvantaggiano enormemente della deferenza verso l’azionista che plasma i comportamenti delle imprese.

Scappatoie fiscali e condizionamento politico

Per molti super ricchi, pagare quante meno imposte possibili rappresenta una strategia-chiave: a tale scopo utilizzano attivamente le reti globali dei paradisi fiscali, come rivelato dai Panama Paper e altri dossier. I Paesi fanno a gara per attrarre i super ricchi mettendo in vendita la propria sovranità; gli “espatriati fiscali” hanno a disposizione un’ampia scelta di destinazioni in ogni parte del mondo. Con un investimento di almeno 2 milioni di sterline si può acquisire il diritto di vivere, lavorare e acquistare proprietà nel Regno Unito godendo di generose agevolazioni fiscali. A Malta, uno dei più grandi paradisi fiscali, la cittadinanza è in vendita a 650.000 dollari. Gabriel Zucman stima che 7.600 miliardi di dollari siano occultati offshore. La sola Africa perde annualmente 14 miliardi di dollari di entrate fiscali a causa del ricorso ai paradisi fiscali da parte dei suoi super ricchi: Oxfam ha calcolato che tale cifra sarebbe sufficiente per finanziare cure mediche capaci di salvare la vita a quattro milioni di bambini e per assumere abbastanza insegnanti da mandare a scuola tutti i bambini africani. Nei Paesi industrializzati le aliquote fiscali applicate ai patrimoni e ai redditi più alti continuano a scendere: negli Stati Uniti, per esempio, l’aliquota massima dell’imposta sul reddito era del 70% nel 1980 mentre oggi è pari al 40%. Nei Paesi in via di sviluppo l’imposizione fiscale a carico dei ricchi è ancora più lieve: le ricerche di Oxfam rivelano che l’aliquota massima delle imposte sul reddito si attesta mediamente al 30% e che la maggior parte del suo gettito fiscale non viene riscossa. “A prescindere da quanto possano essere inizialmente giustificate le disuguaglianze di ricchezza, le fortune possono crescere e perpetuarsi oltre ogni possibile giustificazione razionale in termini di utilità sociale”. Molti super ricchi sfruttano inoltre potere, influenza e rapporti personali per condizionare la politica e forgiare le norme a proprio favore. In Brasile i miliardari esercitano il proprie potere di lobbying per ridurre la tassazione e a San Paolo vanno al lavoro in elicottero, volando al di sopra degli ingorghi stradali e delle infrastrutture scadenti. Alcuni super ricchi usano le proprie fortune per garantirsi risvolti politici favorevoli, cercando di influenzare le elezioni e la politica pubblica. Negli Stati Uniti i fratelli Koch, due degli uomini più ricchi al mondo, hanno esercitato un’enorme influenza sulla politica conservatrice sostenendo molti think tank influenti e il movimento dei “tea party” e contribuendo pesantemente a screditare la causa della lotta al cambiamento climatico. Quest’influenza politica attiva da parte dei super ricchi e dei loro rappresentanti alimenta direttamente la crescita della disuguaglianza poiché rafforza un circolo vizioso in cui i vincitori si impossessano di risorse più cospicue che li aiuteranno a vincere sempre di più nelle partite successive.

I FALSI MITI DI UN’ECONOMIA PER L’1%

L’attuale economia per l’1% si basa su una serie di presupposti errati che stanno dietro gran parte delle politiche, degli investimenti e delle attività di governi, imprese e individui ricchi, e che trascurano tutti coloro che vivono in povertà e la società in generale. Alcuni di tali falsi miti riguardano l’economia stessa; altri hanno più a che fare con quella visione dominante dell’economia che gli stessi suoi creatori definiscono “neoliberismo”, e che presuppone erroneamente che il benessere creato al vertice della piramide si diffonda a cascata verso il basso fino a raggiungere tutti. Il FMI ha identificato nel neoliberismo una delle principali cause della crescente disuguaglianza. Finché non sfateremo questi falsi miti non riusciremo ad invertire la rotta:

  1. Falso Mito n° 1: il mercato ha sempre ragione e il ruolo dei governi dovrebbe essere ridotto al minimo. In realtà il mercato non si è dimostrato il modo migliore di organizzare e attribuire valore alla nostra comune esistenza o di dare un volto al nostro comune futuro. Abbiamo visto invece come la corruzione e il clientelismo condizionino i mercati a discapito della gente comune e come l’eccessiva crescita del settore finanziario porti la disuguaglianza a livelli estremi. La privatizzazione dei servizi pubblici come la sanità l‘istruzione o il settore idrico si è rivelata un fattore di esclusione per i poveri e specialmente per le donne.
  2. Falso Mito n° 2: le grandi imprese devono a tutti i costi massimizzare i profitti e i dividendi da distribuire agli azionisti. La massimizzazione dei profitti dà un impulso sproporzionato ai redditi di coloro che sono già ricchi ed esercita un’inutile pressione sui lavoratori, gli agricoltori, i consumatori, i fornitori, le comunità e l’ambiente. Esistono invece alternative per organizzare l’attività imprenditoriale in modo più costruttivo contribuendo ad una maggiore prosperità per tutti, e vi sono moltissimi esempi pratici su come farlo.
  3. Falso Mito n° 3: l’estrema ricchezza individuale è positiva ed è sintomo di successo, la disuguaglianza non è importante. Al contrario, l’affermazione di una nuova “età dorata” con un’eccessiva concentrazione di ricchezza in pochissime mani, la maggioranza delle quali maschili, è controproducente in termini economici, politicamente corrosiva e pregiudica il progresso collettivo. Si rende necessaria una più equa distribuzione della ricchezza.
  4. Falso Mito n° 4: la crescita del PIL deve essere il principale obiettivo nella definizione delle politiche economiche. Ma come disse Robert Kennedy nel 1968, “Il PIL misura tutto, tranne ciò che rende la vita degna di essere vissuta”. Il PIL non tiene in considerazione l’enorme mole di lavoro non retribuito svolto dalle donne in tutto il mondo; non tiene conto della disuguaglianza, cioè del fatto che un Paese come lo Zambia può registrare una forte crescita del PIL e veder crescere allo stesso tempo il numero dei suoi poveri.
  5. Falso Mito n° 5: il nostro modello economico non è sessista. In realtà i tagli ai servizi pubblici la precarietà occupazionale e la violazione dei diritti dei lavoratori colpiscono maggiormente le donne. La presenza femminile nei posti di lavoro più precari e peggio retribuiti è sproporzionatamente più alta di quella maschile; sono le donne a svolgere la maggior parte del lavoro di cura non retribuito, di cui non si tiene conto nel calcolo del PIL ma senza il quale le nostre economie non potrebbero funzionare.
  6. Falso Mito n° 6: le risorse del pianeta sono illimitate. Questo presupposto non soltanto è errato ma potrebbe anche avere conseguenze catastrofiche per il pianeta. Il nostro modello economico si basa sullo sfruttamento dell’ambiente, ignorando i limiti di ciò che il pianeta può sostenere. Proprio il sistema economico è il principale responsabile di quel cambiamento climatico che ormai sfugge al nostro controllo.

Questi sei falsi miti devono essere rovesciati, e alla svelta. Sono obsoleti, retrogradi e non hanno generato né prosperità condivisa né stabilità. Ci stanno spingendo verso il baratro. Vi è urgente bisogno di un modello alternativo per il funzionamento della nostra economia: un’economia umana.

UN’ECONOMIA UMANA PENSATA PER IL 99%

Dobbiamo creare insieme un nuovo senso comune e rovesciare completamente la prospettiva, dando vita a un’economia umana il cui principale obiettivo sia quello di favorire l’interesse del 99% e non quello dell’1%. La fascia sociale che dovrebbe trarre enorme vantaggio dalle nostre economie è quella dei poveri, a prescindere dal fatto che si trovino in Uganda o negli Stati Uniti. L’umanità possiede un incredibile talento, enormi ricchezze e un’immaginazione sconfinata: dobbiamo combinare questi tre fattori per creare un’economia più umana che vada a vantaggio di tutti, non soltanto dei pochi privilegiati.

Un’economia umana garantirebbe società migliori e più eque, assicurerebbe posti di lavoro sicuri con retribuzioni dignitose, tratterebbe uomini e donne con pari dignità; nessuno dovrebbe più preoccuparsi per il costo delle cure mediche, tutti i bambini avrebbero la possibilità di realizzare il proprio potenziale. La nostra economia prospererebbe entro i limiti posti dal pianeta e lascerebbe ad ogni nuova generazione un mondo migliore e più sostenibile.

I mercati sono il motore vitale della crescita e della prosperità, ma non possiamo continuare a far finta che sia il motore a guidare la macchina o a decidere qual è la direzione migliore da prendere. I mercati devono essere gestiti in modo oculato e nell’interesse di tutti affinché i proventi della crescita siano equamente distribuiti, il cambiamento climatico sia affrontato in maniera adeguata e sanità ed educazione siano una prerogativa di molti, specialmente (ma non solo) nei Paesi più poveri.

Un’economia umana avrebbe tutta una serie di componenti essenziali atti a contrastare i problemi che hanno determinato l’attuale crisi della disuguaglianza. Il presente rapporto si limita a tratteggiarne alcuni, offrendo in tal modo una base da cui partire.

In un’economia umana:

  1. I governi lavoreranno per tutti i cittadini. Governi responsabili: è questa l’arma più potente contro la disuguaglianza estrema e la chiave per un’economia umana. I governi devono prestare ascolto a tutti, non soltanto ad una ricca minoranza e ai suoi lobbisti. Dobbiamo assistere ad un rafforzamento dello spazio civico, specialmente per dare voce alle donne e ai gruppi emarginati. Più i governi sono responsabili, più le nostre società saranno giuste.
  2. I governi collaboreranno, non si limiteranno a competere. La globalizzazione non può seguitare a tradursi in un’inarrestabile corsa al ribasso in materia di fiscalità e dei diritti dei lavoratori ad esclusivo vantaggio di chi sta ai vertici della società. Dobbiamo porre fine una volta per tutte all’era dei paradisi fiscali. I Paesi devono collaborare su un piano di paritetico per costruire un nuovo consenso globale e generare un circolo virtuoso in cui le grandi imprese e i ricchi individui adempiano in modo equo ai propri obblighi fiscali, l’ambiente sia protetto e i lavoratori ben retribuiti.
  3. L’impresa lavorerà per il bene di tutti. I governi devono sostenere modelli di business ispirati ad un tipo di capitalismo che generi benefici per tutti e ponga le basi per un futuro sostenibile. I proventi dell’attività imprenditoriale devono andare a coloro che l’hanno resa possibile e realizzata: società, lavoratori e comunità locali. Si deve porre fine alle attività di lobbying da parte delle imprese e ad un insano condizionamento delle istituzioni democratiche. I governi devono fare in modo che le grandi imprese corrispondano salari equi, versino le imposte dovute e si assumano la responsabilità del proprio impatto sul pianeta.
  4. Per eliminare la povertà estrema dovremo porre fine all’estrema concentrazione della ricchezza. È necessario porre fine all’attuale “età dorata” che pregiudica il nostro futuro. I super-ricchi devono essere indotti a dare il proprio equo contributo alla società anziché limitarsi a godere di ingiusti privilegi. Ciò significa adempiere correttamente ai propri obblighi fiscali: le imposte che gravano sulla ricchezza e sui redditi più alti devono aumentare per garantire condizioni più eque per tutti, e gli abusi fiscali da parte dei super ricchi devono essere arginati.
  5. I benefici saranno uguali per uomini e donne. L’uguaglianza di genere è il cuore dell’economia umana per garantire che le due metà dell’umanità abbiano pari opportunità di vita e siano in grado di vivere in modo soddisfacente. Scompariranno per sempre gli ostacoli al progresso femminile, tra cui quelli che impediscono l’accesso all’istruzione e ai servizi sanitari. Non saranno più le convenzioni sociali a dettare il ruolo della donna nella società e, in particolare, il lavoro di cura non retribuito sarà riconosciuto, ridotto e ridistribuito.
  6. La tecnologia sarà messa al servizio del 99%. Le nuove tecnologie incorporano un enorme potenziale capace di trasformare in meglio le nostre vite. Ciò accadrà tuttavia soltanto con un intervento attivo da parte dei governi, specialmente per quanto riguarda il controllo della tecnologia. L’attività di ricerca pubblica è già alla base di alcune delle maggiori innovazioni degli ultimi tempi, tra cui lo smartphone. I governi devono intervenire per far sì che la tecnologia contribuisca a ridurre la disuguaglianza e non ad aggravarla.
  7. L’economia umana sarà alimentata da energie sostenibili e rinnovabili. I combustibili fossili sono stati il motore della crescita economica fin dall’era della rivoluzione industriale, ma sono incompatibili con un’economia che mette al primo posto i bisogni della maggioranza dell’umanità. L’inquinamento atmosferico derivante dalla combustione del carbone causa milioni di morti premature in tutto il mondo, mentre le devastazioni indotte dal cambiamento climatico colpiscono più duramente i soggetti più poveri e vulnerabili. Le fonti energetiche sostenibili e rinnovabili possono consentire accesso universale all’energia e crescita pur nel rispetto dei limiti posti dal pianeta.
  8. Sarà valutato e misurato ciò che conta veramente. Dobbiamo valutare il progresso umano utilizzando misure alternative al PIL, scegliendo tra i tanti indicatori disponibili. I nuovi indicatori devono tenere pienamente conto del lavoro non retribuito svolto dalle donne in tutto il mondo; devono riflettere non soltanto il volume dell’attività economica ma anche il modo in cui reddito e ricchezza sono distribuiti; devono essere strettamente legati alla sostenibilità e contribuire alla costruzione di un mondo migliore per noi e per le generazioni future. Ciò consentirà di misurare il reale progresso delle nostre società. Possiamo e dobbiamo costruire un’economia più umana prima che sia troppo tardi.

*Stralci dal rapporto Oxfam sulla crisi delle disuguaglianze

fondazione nenni

Via Alberto Caroncini 19, Roma www.fondazionenenni.it

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