La scorsa settimana questo blog ha pubblicato un commento di una decina di righe a un’intervista resa da Alessandro Di Battista (M5s) a Die Welt. Titolo: L’economia da scuola elementare di Di Battista. Si è sviluppato sul web un ampio dibattito su quelle poche righe come è giusto che fosse: l’obiettivo era quello. Ci sono state anche numerose critiche nei nostri confronti: legittime perché l’articolazione delle idee è il sale della vita. Certo, alcune scadevano nella volgarità, ma si sa non tutti considerano un valore la buona educazione. Di Battista sosteneva in quella intervista che il modello economico da rafforzare è quello delle piccole e medie imprese e che il volano della nostra crescita sia rappresentato dall’enogastronomia e dal turismo, il “nostro vero petrolio”. A noi questa analisi è apparsa ed appare semplicistica, da scuola elementare, appunto. Soprattutto basata su modi di dire e su luoghi comuni più che su dati, studi e analisi che possono anche infastidire ma possono pure essere utili per la comprensione dei problemi.
Perché semplicistica? Perché un sistema economico che deve produrre benessere diffuso per sessanta milioni di italiani è inevitabilmente complesso ricordando un po’ lo scheletro degli umani: tante ossa tenute insieme, però, da una spina dorsale. In questo momento le ossa sono tante e sono addirittura aumentate ma la spina dorsale, cioè le aziende di grandi dimensioni, si è rinsecchita. Insomma, il sistema ha numerosi problemi e uno di questi è il “nanismo”. Qualche tempo fa, il professor Leonello Tronti lo illustrò in un intervento a un seminario dell’Isfol analizzando l’evoluzione ventennale del sistema. Sulla base di dati ufficiali (Istat) spiegò che nel 1991 in Italia operavano tre milioni 106 mila 677 imprese con meno di nove addetti per una occupazione di 6 milioni 621 mila 694 lavoratori e una dimensione media di 2,1 lavoratori. Contemporaneamente erano attive centomila 731 imprese con più di sedici addetti per una occupazione complessiva di sei milioni 836 mila 678 addetti e una dimensione media di 67,9 lavoratori.
Nel 2011 le aziende fino a nove addetti erano quattro milioni 214 mila 630 per una occupazione complessiva di 7.699.197 addetti e una dimensione media di 1,8; al contrario minimo era stato l’aumento delle imprese con oltre 16 addetti in attività: 105 mila 431 per una occupazione complessiva di sette milioni 454 mila 32 lavoratori. La conclusione, anche analizzando l’evoluzione dei diversi settori produttivi (quindi non solo l’industria), era che il sistema italiano stava uscendo dalla crisi più piccolo in termini di prodotto, di occupazione e nella dimensione delle imprese e anche profondamente terziarizzato.
Insomma, siamo sempre più “nani” e questo in un mercato che è per forza di cosa globale (a meno che non si creda alle frottole di Trump che poi recluta nel governo banchieri e industriali che fanno affari tanto a New York quanto a Kathmandu) il paese finisce per avere qualche problema. D’altro canto, nella geografia delle grandi imprese internazionali noi schieriamo solo due soggetti, l’Eni e l’Enel; la Svizzera (due milioni in meno di cittadini della Lombardia) ne schiera il triplo. Molti più di noi ne schierano la Francia e la Germania.
Dunque, nessuno nega la vitalità delle piccole e medie imprese ma è venuto il momento non solo di porci qualche problema dal punto di vista dei processi di innovazione del sistema ma anche delle sue dimensioni medie. D’altro canto, in questi ultimi sessant’anni spesso è stato evocato o, forse sarebbe meglio dire, invocato un nuovo miracolo economico. L’unico che abbiamo vissuto, quello tra il 1958 e il 1963, venne favorito dalle grandi dimensioni che agevolarono (nelle aree più vitali) anche la crescita della piccola e media dimensione. Nessuno nega anche la rilevanza “culturale” dell’enogastronomia e del turismo: sono il nostro biglietto da visita, l’illustrazione di quel “buon vivere” che nel mondo ci viene (o veniva) riconosciuto. Ma dietro il biglietto da visita ci deve essere qualcosa di più concreto, corposo. La Grecia è da anni paese turistico ma non sembra che se la passi e se la sia passata granché bene. Il “nostro petrolio”? Certo ma poi bisogna vedere come lo si usa il petrolio perché in Nigeria quello vero lo estraggono in quantità copiose ma la cosa non ha favorito il benessere diffuso.
Negli anni Ottanta, chi non è particolarmente giovane, lo ricorda perfettamente, si attribuiva alla moda da un punto di vista economico la stessa capacità taumaturgica che oggi si attribuisce alla gastronomia. Abbiamo avuto e abbiamo ancora straordinari stilisti ma nel frattempo grandi marchi (da Valentino a Gucci, da Fendi a Brioni) sono diventati stranieri con tutto quello che ne consegue o potrebbe conseguire in prospettiva in termini di lavoro e, quindi, di benessere per il Paese.
E veniamo a ricerca, innovazione e sviluppo. Ci è stato obiettato che la ricerca la fanno anche le piccole e medie imprese. Certo ma in una misura residuale perché in linea di massima le nuove tecnologie non le creano, le acquistano. Si dice: tanti brevetti sono italiani. A parte il fatto che non siamo il paese che presenta il maggior numero di domande (anzi, siamo nelle ultime file), poi però conta la qualità del brevetto, dell’invenzione: può essere una novità assoluta o un lieve aggiornamento di una grande innovazione realizzata già da altri. E allora in questo caso è meglio affidarci ai numeri. In Europa in ricerca, innovazione e sviluppo si spende in media poco più del due per cento del Pil. Alcuni sostengono che bisognerebbe investire almeno il tre per cento. L’Italia, però, mette sul piatto la metà della media europea, uno 0,5 fa capo alle imprese, il resto (0,6) allo Stato.
Il fatto è che per fare ricerca (tanto di base quanto applicata) occorrono capitali e i capitali si coniugano in linea di massima con le grandi dimensioni. Mariana Mazzucato in un libro straordinario (“Lo Stato innovatore”) ha spiegato come gran parte degli strumenti che noi, contemporanei della terza rivoluzione industriale, usiamo provengono da una ricerca commissionata verso la metà degli anni Settanta dal Pentagono. Aveva finalità militari e prevedeva la costruzione di un sistema di comunicazione alternativo rispetto a quelli classici di quei tempi, da attivare in caso di emergenza. Internet è nata così. Come dalla ricerca su nuovi sistemi di puntamento è nato il touch screen dei nostri tablet. E più o meno la medesima genesi ha Siri. Dopo, solo dopo, sono arrivati Bill Gates e Steve Jobs (e anche qui sfatiamo un luogo comune: il primo, cioè Microsoft, investe in ricerca molto più del secondo, cioè Apple) che hanno sfruttato l’innovazione, l’hanno fatta evolvere assecondando così l’ampliamento delle dimensioni dell’azienda (e l’azienda con le sue dimensioni sempre più grandi ha a sua volta spinto gli investimenti in ricerca).
È evidente, allora, che il problema di un sistema economico come quello italiano non governato da almeno un ventennio (sino alla metà degli anni Novanta eravamo ancora alla pari dei nostri concorrenti), non si indirizza verso un nuovo sviluppo semplicemente con il turismo, l’enogastronomia e il sistema delle piccole e medie imprese che, peraltro, negli anni della crisi ha ampliato i propri confini. Ci vuole di più, molto di più perché nel frattempo tutto è diventato più complesso e difficile e noi come le stelle siamo rimasti a guardare.