Gentiloni: governo dell’usato sicuro. Per chi?

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-di ANTONIO MAGLIE-

Con la lista dei ministri si è virtualmente conclusa (salvo scivoloni in sede di voto di fiducia) la breve, convulsa e confusa crisi di governo. Non si può certo dire tra squilli di tromba e rulli di tamburi. Paolo Gentiloni ha battuto la strada ampiamente pronosticata: quella dell’usato sicuro (solo tre volti nuovi, una promozione, due semi-esordi e un demansionamento). Ma sicuro per chi? Certo non per il Paese che avrebbe bisogno di robuste “vitamine” politiche e non di una scialba “ribollita”. Non per il Pd che in questo modo prosegue sulla strada della propria alienazione rispetto allo spirito dei tempi e dell’Italia. Forse per Renzi. Ma non è detto perché a dir il vero l’uomo che con un certo dispiacere si è dedicato in questi giorni al confezionamento degli “scatoloni”, è apparso tentennante e ondivago.

Prima ha provato a battere la strada della demagogia populista (“alle urne, alle urne”) sul modello salvinian-grillino non avendo ancora capito che in quegli atteggiamenti non è più credibile e non da ora ma da quando ha messo piede a palazzo Chigi. Poi cedendo alle pressioni del presidente della Repubblica, ha optato per la vecchia pratica democristiana dei governicchi balneari fuori stagione. In questo modo ha finito per perdere di vista la grande opportunità che come leader del partito di maggioranza gli consegnava la sconfitta: uno scatto di reni, un salto di qualità attraverso la costituzione di un governo che segnasse realmente una discontinuità rispetto al suo, di alto profilo, libero e liberato da tecnocrati (più o meno bocconiani), da “fedelissimi” dallo spirito critico prossimo (e anche al di sotto) dello zero, da amici degli amici di finanzieri e industriali con residenza fiscale all’estero. Un governo, al contrario, ricco di politici dalle scarpe consumate per i chilometri percorsi in questo Paese che appare sempre di più come una grande periferia dell’Europa.

Eugenio Scalfari ha invitato Renzi a prendere lezioni da Cavour e Garibaldi per diventare quel che non è, uno statista. Matteo da Rignano ha preferito ispirarsi ad Andreotti e al motto che ha guidato il leader dc per tutta la vita: “Meglio tirare a campare che tirare le cuoia”. Come il Divo Giulio, anche lui si considera una “volpe” e ritiene di essere al riparo da pericoli avendo lo spirito ecologico ridotto drasticamente gli affari delle pelliccerie. Ma non ha solo ridotto gli affari, ha reso anche obsoleto il prodotto, dettaglio a cui Renzi dovrebbe prestare attenzione.

Perché il voto di domenica 4 dicembre è stato essenzialmente contro di lui. Lo spiegano le analisi dei flussi (a cominciare da quello dell’Istituto Cattaneo). Il suo partito personale di centro-centro-sinistra (?) non ha più un popolo. Il referendum ha svelato il solco che si è creato tra lui e i ceti che sono usciti economicamente, socialmente e psicologicamente a pezzi dalla crisi mentre lui continuava amabilmente a dialogare con Sergio Marchionne e Davide Serra. Ai giovani ormai usciti dall’adolescenza e desiderosi di diventare uomini, cioè di rendersi autonomi, il suo governo non ha dato certezze di futuro e stimolanti prospettive di lavoro ma voucher e Jobs Act (oggi gli ultimi dati che illustrano un fallimento), cioè precarietà finanziaria e solitudine esistenziale. Ecco perché se fosse stato lo statista evocato avrebbe messo da parte i suoi interessi e costruito le condizioni per un vero salto di qualità.

Invece ha preferito affidare a Paolo Gentiloni (persona degnissima) il compito di tenere in ordine l’ufficio che confida di rioccupare a breve. Ma il suo vecchio progetto politico è fallito e le sue scelte successive al fallimento (e anche le parole pronunciate) dimostrano che ancora non ne ha messo a punto uno nuovo perché “le changement pour le changement” è come “l’art pour l’art”: non serve a nulla. Avrebbe dovuto, al contrario, fare tesoro dell’insegnamento messogli a disposizione dalle elezioni romane dove un suo fedelissimo (Roberto Giachetti) è stato travolto da un candidato-sindaco (Virginia Raggi) che nella veste di primo cittadino non è che stia fornendo particolare prove di sé, anzi. Eppure il Movimento 5 stelle regge nei sondaggi e nelle urne referendarie a conferma che in questa fase già post-renziana chi vince può mantenersi a galla anche senza far nulla, semplicemente sfruttando la mancanza di una proposta alternativa credibile da parte di quello che era l’unico partito (M5s a parte) in grado di ottenere nelle urne una maggioranza, seppur relativa.

ECCO IL NUOVO GOVERNO

Solo tre facce nuove (Marco Minniti, Anna Finocchiaro e Valeria Fedeli), un “demansionamento”: Maria Elena Boschi ora è soltanto sottosegretaria alla presidenza del Consiglio (smentendo i suoi propositi di abbandono in caso di sconfitta referendari); una promozione: Angelino Alfano agli affari esteri (una scelta non luminosissima per alcune controverse vicende che lo hanno tirato in ballo proiettandolo sul proscenio internazionale); due mezzi esordi: Claudio De Vincenti, con Renzi sottosegretario alla presidenza del consiglio, mandato a dirigere il riesumato ministero per la coesione territoriale (leggi: Mezzogiorno); e Luca Lotti anche lui ora ministro dello sport (prima era potente sottosegretario alla presidenza del consiglio) che ha dovuto, però mollare la delega sui servizi segreti. Quello presieduto da Paolo Gentiloni se non è un governo fotocopia di quello diretto da Matteo Renzi, poco ci manca. La nuova squadra di governo è la seguente: Presidente del consiglio: Paolo Gentiloni; ministro degli esteri: Angelino Alfano; ministro dell’economia: Pier Carlo Padoan; ministro del’Interno: Marco Minniti; ministro del lavoro: Giuliano Poletti; ministro della salute: Beatrice Lorenzin; ministro per lo sviluppo economico: Carlo Calenda; Ministro di grazia e giustizia: Andrea Orlando; ministro della difesa: Roberta Pinotti; ministro per la funzione pubblica: Marianna Madia; ministro per la coesione territoriale: Claudio De Vincenti; ministro dell’agricoltura: Maurizio Martina; ministro per le infrastrutture: Graziano Delrio; ministro per l’ambiente: Gianluca Galletti; ministro per i beni culturali: Dario Franceschini; ministro per la pubblica istruzione: Valeria Fedeli; ministro per gli affari regionali: Enrico Costa; ministro per i rapporti con il Parlamento: Anna Finocchiaro; ministro dello sport con delega all’editoria e al coordinamento del Cipe: Luca Lotti; sottosegretario alla presidenza del consiglio: Maria Elena Boschi.

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