-di ANTONIO MAGLIE-
Il rilancio effettuato alcuni giorni fa da Alessandro Di Battista in una intervista a Die Welt a proposito del referendum sull’euro ha creato nuova (seppur temporanea) eccitazione mediatica. Dato che la demagogia è un bene di largo consumo politico (e non solo), forse è opportuno fornire qualche informazione in materia per sgomberare il campo dalle strumentalizzazioni di una distorta propaganda. L’istituto del referendum è disciplinato dall’articolo 75 della Costituzione che a larga maggioranza gli italiani hanno confermato nella sua forma attuale domenica scorsa, 4 dicembre. Purtroppo non tutti i connazionali la conoscono nei più reconditi dettagli. Poco male, in realtà. Molto male, però, se difettano in conoscenza quei rappresentanti del popolo che dovrebbero recitarla a menadito, che l’hanno difesa sulle piazze con sprezzo del pericolo e anche con un certo disprezzo della verità storica affermando che quella Carta fu approvata a suffragio universale quando, al contrario, venne varata con voti successivi e un voto conclusivo dell’assemblea costituente, quella sì eletta a suffragio universale.
L’articolo 75 è composto da cinque commi. E se il primo indica i modi per indire un referendum, il secondo spiega quali leggi non possono essere sottoposte al vaglio popolare. Recita: “Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali”. L’euro è stato introdotto sulla base della firma di un trattato internazionale regolarmente ratificato. Conseguenza: la nostra adesione all’attuale sistema monetario non può essere sottoposta a referendum abrogativo.
Si obietta: ma noi ne vogliamo uno consultivo. Anche su questo terreno, però, c’è qualche non irrilevante problema. Infatti, in nessuno dei cinque commi dell’articolo 75 si fa riferimento al referendum consultivo. Ergo: nel nostro ordinamento quello strumento non esiste ancora. Certo, può essere introdotto ma perché questo avvenga bisogna approvare una legge costituzionale che segua, come è noto, un iter legislativo aggravato: doppia lettura in tutti e due i rami del Parlamento e referendum nel caso di approvazione a maggioranza semplice e non qualificata (terzo comma dell’articolo 138: “Non si fa luogo a referendum se la legge è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti”). Conclusione: non esiste uno strumento che garantisca un valore legale a una consultazione popolare consultiva; gli eventuali gazebo così cari alla Lega Nord o le votazioni online tanto amate dai pentastellati possono avere un significato statistico, essere usate come strumento di propaganda e pressione politica, addirittura rappresentare lo stato d’animo di settori (anche vasti) del popolo italiano ma non spostano di una virgola la questione da un punto di vista istituzionale, cioè non hanno alcun valore cogente.
Se vogliamo discutere di euro, di Unione Europea, di politiche che hanno ampliato i confini della povertà, reso incerte le vite di strati crescenti della popolazione, allargato a dismisura il solco che separa i pochi ricchi da tutti gli altri, di un sistema fiscale che redistribuisce ancora la ricchezza ma nel senso contrario e cioè non dall’alto verso il basso ma dal basso verso l’alto, di una finanza che insieme all’anima di una comunità ha divorato anche principi, valori morali e ricchezze materiali, facciamolo pure ma in maniera seria e non demagogica, partendo dalla testa del problema e non dalla coda solo per gettare un po’ di fumo negli occhi degli elettori e conquistare qualche facile consenso. Perché grattando solo la superficie potremmo anche accorgerci che l’uscita dall’euro non garantisce la soluzione di tutto il resto.