-di ANTONIO MAGLIE-
Alle 23 del 20 agosto 1968 le truppe del Patto di Varsavia (i Russi, nella semplificata ma efficace comunicazione di quei tempi) con i cingoli dei loro carri armati devastarono senza esitazione la “Primavera di Praga” e provvidero a restituire un volto disumano a quel socialismo che Alexandr Dubcek avrebbe voluto umanizzare. Messa così, una data come tante altre che, però, solleva un interrogativo: è utile ancora parlare di vicende accadute in un mondo che non esiste più? Serve a qualcosa discutere politicamente su quel che avvenne allora o non è meglio affidare tutto il “fascicolo” alle più dotte ma anche più fredde analisi degli storici di professione? In fondo, parliamo di un mondo lontano quasi mezzo secolo, che sembra quasi uscire dalla preistoria.
Il panorama non ci è più familiare. Sul mondo diviso a Yalta è calato il sipario; non esiste più il confronto tra le due superpotenze, nonostante il tentativo di Vladimir Putin di rianimarlo con la riannessione della Crimea o il sostegno alle formazioni filo-russe ucraine; in un mondo sempre più segnato dall’instabilità del terrorismo che semina morte anche con un tir lanciato tra la folla ad alta velocità, abbiamo quasi nostalgia di quello che era definito “equilibrio del terrore” con il corollario della “deterrenza”; ai più sigle come Salt1, Salt2, Start non dicono nulla, apparendo più che altro acronimi criptici e non quello che effettivamente erano, trattative per ridurre gli armamenti nucleari in maniera tale che se fosse scoppiata una guerra tra i due Blocchi il mondo invece di esplodere dieci volte si sarebbe distrutto “soltanto” due volte; cosa fossero i Pershing, i Cruise, gli SS20 ormai lo sano in pochi e in pochi ricordano i grandi dibattiti sui missili a testata singola o multipla, sulla capacità offensiva di quelli da crociera che definiti così sembrano quasi roba da agenzia di viaggio. Persino la Cecoslovacchia non esiste più divisa tra Repubblica Ceca e Slovacchia. Il sistema sovietico fatto di “satelliti” è esploso come una galassia e le nazioni nate da quella esplosione hanno rapidamente cercato una sistemazione in nuove galassie: la Nato, l’Europa a cui hanno aderito non tanto (o non solo) per una vocazione europeista non soppressa a Yalta, ma per la necessità di trovare ombrelli protettivi che evitasse loro di subire quel che per mezzo secolo avevano subito.
Forse ha ragione Fausto Bertinotti quando dice che quella data è un confine che ha segnato la storia. Fu l’ultima occasione per il sistema sovietico di rigenerarsi dall’interno. La perse. Anni dopo ci avrebbe riprovato Michail Gorbaciov ma la situazione si era ormai talmente incancrenita che la vecchia costruzione realizzata a tavolino da Stalin, Churchill e Roosevelt, venne giù come un castello di carta, finendo il leader sovietico per essere vittima della contraddizione segnalata da Henry Kissinger: “Gorbaciov sapeva quali erano i suoi problemi ma agì ad un tempo troppo in fretta e troppo adagio: troppo in fretta per il grado di tolleranza del suo sistema, e troppo adagio per frenare la velocità del suo crollo”.
Mosca non capì la grande occasione che Dubcek forniva annunciando nell’aprile del 1968 al Plenum del comitato centrale del partito comunista cecoslovacco che “la funzione del Partito può affermarsi solo quando si appoggia sugli interessi e sulla diretta conoscenza delle esperienze delle masse popolari”. Poteva essere la strada per uscire da un sistema opprimente e burocratico, votato all’autodistruzione (cosa che sarebbe poi effettivamente avvenuta un paio di decenni dopo). E forse anche la sinistra italiana nel suo complesso, seppur per ragioni diverse, non colse appieno il momento, con il Psi che aveva i suoi problemi legati a un processo di unificazione destinato a un triste e rapido tramonto e un Pci che non commise gli stessi errori di dodici anni prima (l’Ungheria) ma evitò di accelerare i tempi dello sganciamento da Mosca, vittima anche delle contraddizioni interne segnalate, ad esempio, da Miriam Mafai in una testimonianza resa molti anni dopo in un articolo per “la Repubblica”: “Non tutti erano d’accordo con il comunicato uscito sull’Unità. Erano una minoranza, senza dubbio. Ma c’erano anche non pochi compagni convinti che l’Urss per decidersi a quel passo doveva aver avuto le sue buone ragioni”.
In quel comunicato, scritto da Pietro Ingrao e Giorgio Napolitano, veniva espresso il “dissenso” dei comunisti italiani convinti che con un incontro a Bratislava all’inizio del mese, la prospettiva dell’invasione fosse stata sventata. In realtà le cose andarono diversamente e a Botteghe Oscure se ne resero conto solo alle 19 del 20 agosto quando Enrico Smirnov comunicò a Cossutta a Botteghe Oscure che l’ambasciatore sovietico voleva incontrarlo a villa Abamalek. Poche imbarazzate parole per annunciare la partenza dei cari armati in direzione di Praga. Luigi Longo, il segretario del Pci, era in quel momento a Mosca, in vacanza; Giancarlo Pajetta, invece, era a Yalta e la mattina del 21 agosto si vide consegnare da un funzionario del comitato centrale del Pcus un foglietto in cui si comunicava che i paesi del Patto di Varsavia stavano per correre “in aiuto” dei Cecoslovacchi e quando Pajetta chiese quando questa corsa sarebbe cominciata, la risposta fu semplice e chiara: “E’ avvenuta”. Al ritorno in Italia, il dissenso (parola troppo morbida per la gravità dei fatti) si trasformò, su precisa indicazione di Longo, in “riprovazione”.
Di questa chiarezza, Pietro Nenni darà atto al Pci nel corso dell’intervento alla Camera del 29 agosto: “Il discorso a questo punto si sposta necessariamente sulla natura degli avvenimenti cecoslovacchi, senza di che tutto rimane campato in aria, compreso il «no» alla invasione, che questa volta è venuto, con alto senso di responsabilità, anche dai comunisti dell’occidente e in primo luogo da quelli italiani”. Invitandoli, però, a una “accelerazione” che non arriverà: “Risalire dai fatti alle loro cause rimane il problema e, in una certa misura, lo scoglio contro il quale urtano quei comunisti, italiani compresi, anzi in prima linea, che condannando l’intervento sovietico hanno assunto una posizione che ha positivamente pesato e pesa sul corso degli avvenimenti; ma essi non saranno completamente in regola con il «no» all’invasione, se non mettendosi in regola anche nel valutare i presupposti e gli sviluppi di una nuova concezione del potere.
Fin qui la storia, ma può ancora servire una riflessione politica su questa vicenda? E quale indicazione può trarre la sinistra? Joseph Smith in un libro dal titolo significativo (“La guerra fredda 1945-1991) spiega che il crollo repentino del blocco sovietico è stato determinato dal fatto che la storia ha invertito l’ordine dei fattori: la rivoluzione proletaria considerata ineluttabile (e che nella logica iniziale della versione americana della guerra fredda si trasformava nella paura “dell’effetto domino”) da Stalin e in larga misura dai suoi successori si è rivelata una “tigre di carta” mentre la capacità di attrazione del modello occidentale ha accelerato le scelte di campo denudando il “re sovietico”. Tutto bene, allora? Tutti felici? In realtà di felicità se ne vede poca in giro. Al contrario, si nota molta inquietudine e tanta paura: del futuro ma anche del presente. E la sinistra quasi non riesce a sintonizzarsi su quegli interessi delle masse popolari a cui faceva accenno Dubcek. La conseguenza è che quelle inquietudini si trasformano nell’acqua per l’orto dei demagoghi della destra spregiudicata, degli “imprenditori della paura”. Alberto Benzoni, ex vice-sindaco di Roma, uomo abituato ad analisi raffinate, spesso sottolinea che il bisogno di socialismo (come ha dimostrato anche la cavalcata americana di Sanders) è fortissimo ma manca l’offerta, cioè il progetto. Perché, se è fondata la tesi di Smith, molto più fondata appare quella di Bobbio: il socialismo illiberale è morto, ora però bisogna in qualche modo superare il liberalismo asociale.