-di ANTONIO MAGLIE-
Quando è cominciata questa “lotta di classi”, questo conflitto generazionale? E quando e come finirà? All’interrogativo si attendevano risposte soprattutto dal ministro del lavoro e delle politiche sociali, Giuliano Poletti nel corso del dibattito che si è svolto mercoledì pomeriggio (27 luglio) nei saloni dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani. Occasione per il confronto: il libro di Ugo Intini pubblicato dalla Edizioni Ponte Sisto: “Lotta di classi tra giovani e vecchi”. Il ministro dopo una analisi articolata, non è che abbia fornito delle chiare risposte. O, meglio, una è stata accennata. Conseguenza di un ragionamento che il ministro ha svolto relativamente alla diversità dei tempi delle innovazioni tecnologiche (velocissime) e dei cambiamenti sociali e politici (lentissimi). In particolare Poletti ha voluto sottolineare come la nascita di nuovi lavori legati al mondo cybernetico rende complicata la definizione contrattuale dei lavoratori che a queste attività decisamente atipiche rispetto alle nostre categorie di riferimento, si dedicano. A questo punto, data la rapidità dei mutamenti tecnologici e la lentezza di quelli politici, a questi lavoratori o si offre un contratto o si offre un contesto. Il ministro sembra propendere per il secondo in quanto il primo potrebbe arrivare troppo tardi quando quel tipo di attività è già vecchia, morta e superata.
A parte il fatto che il contesto va comunque riempito di contenuti altrimenti rischia di essere un guscio vuoto, una semplice evocazione oratoria se non peggio, retorica, è la tesi dei tempi incompatibili che impediscono l’idea di una difesa contrattuale che non sembra reggere. I tempi si possono anche rendere compatibili, basta accelerarli, basta rendere le procedure più snelle. A meno che non si punti a lasciarli comunque lenti proprio per favorire l’eliminazione delle difese contrattuali. Ma come Norberto Bobbio ci ha insegnato, la vita di una comunità è basata sui contratti e all’interno del mondo del lavoro, come di qualsiasi mondo, laddove non esiste una regolazione di questo tipo si viene sempre a determinare una condizione sproporzionata nelle relazioni tra gli individui. Il rischio è che eliminando il contratto si crei una situazione simile a quella della giungla dove il più forte sopravvive e il più debole soccombe. E il “contesto” di cui parla Poletti corre proprio il rischio di assumere i caratteri di una pericolosissima giungla.
Ha ragione il ministro quando afferma che non possiamo immaginare una vita che abbia come obiettivo la pensione. Ma non possiamo nemmeno immaginare una vita che abbia come obiettivo la miseria nel momento in cui le persone, indebolite dall’età, sono sempre più indifese nei confronti di una società profondamente diseguale e che perciò tende a non fare prigionieri. Introducendo il dibattito, Ugo Intini ha sottolineato come in Italia nel 1950 i neonati fossero il doppio rispetto ai tempi attuali e gli ultraottantenni appena un quinto. E la cosa induce a pensare che la vecchiaia sia una sorta di “malattia epidemica” per cui i paesi in via di sviluppo invecchieranno molto prima di diventare ricchi. Un mondo che si sta modificando profondamente e rapidamente. E se Intini sottolinea come oggi l’Europa rappresenti appena il 5 per cento della popolazione mondiale e l’Italia addirittura lo 0,5, Stefano Folli, giornalista, ex direttore del “Corriere della Sera” e attuale editorialista de “la Repubblica”, ha ricordato come nel 1870 il vecchio (da tutti i punti di vista) continente detenesse il 35 per cento della produzione mondiale mentre oggi non va oltre il cinque.
Ma allora, esiste la lotta di classi? Per Poletti no, perché manca un collante che unisca le classi, una lettura univoca della situazione; il ministro intravede solo delle differenziazioni che attraversano le classi. E poco incline a parlare di lotta di classi è anche il sociologo Giuseppe De Rita, anche per un personale atteggiamento ideologico: nella sua vita, spiega, ha prestato più attenzione ai processi che agli eventi e la lotta di classe è catalogabile in questa seconda categoria. Eppure sarebbe stato bello se si fosse accennato, nel corso del dibattito, a chi in questi anni, anche per contingenti motivazioni politiche, di consenso elettorale, ha utilizzato lo strumento se non della lotta di classi della contrapposizione di interessi. E semmai si sarebbe potuto parlare delle responsabilità del mondo politico che, come ha sottolineato Giorgio Benvenuto, ha manomesso il sistema pensionistico pensando ai benefici immediati, a far cassa, al presente, avvilendo e colpevolizzando quelle persone, i pensionati, che poi nel “tempo della crisi” hanno colmato i “buchi” creati dalla società politica nel sistema di welfare sulla base di scelte ideologiche, affaristiche o, peggio ancora, corruttive. Semmai motivando questo interventismo esasperato e disordinato con la necessità di assicurare il “futuro” ai giovani mentre, in realtà, glielo ipotecavano. Abbiamo, da questo punto di vista, illustri esempi di presidenti del consiglio che hanno di fatto alimentato questa polemica. Non si risparmiò certo Mario Monti che dall’alto dei suoi settantatré anni dovrebbe dare il buon esempio e farsi da parte mentre al contrario continua a cavalcare l’onda e che onda!
Indubbio il fascino dell’analisi di De Rita, un po’ meno condivisibile il suo ottimismo sulla capacità quasi automatica dei processi di trasformazione di trovare delle regolamentazioni. Lui si affida, in questo caso, al ricordo e all’esempio degli anni Settanta quando il Censis “svelò” il sommerso. Dieci anni dopo, negli anni Ottanta quello che era visto come un processo tutto negativo, fatto in particolare di sfruttamento del lavoro nero, trovò strumenti di regolazione e produsse il piccolo boom di quel periodo. Adesso, però, sarebbe bello condurre una analisi sociologica sulle persone che vissero dentro quella fase per capire se le regolazioni si sono rivelate positive ed esaustive. O se, al contrario, la società di oggi non è, in qualche misura, figlia naturale di quella fase perché se è vero, come dice il sociologo che oggi dobbiamo fare i conti con due variabili (la crisi demografica e quella economica), è anche vero che quel boom per alcuni è proseguito ameno fino al fallimento della Lehman Brothers (e anche dopo) e che quella regolazione “allentata” ha consentito una lettura estremamente spregiudicata da parte del mondo della finanza e di buona parte di quello imprenditoriale del motto della Thatcher “andate e arricchitevi”. Motto che in Italia ha consentito, come dicono le statistiche ufficiali, alle imprese di dilatare sino al 2007 in misura decisamente cospicua i margini di profitto limitando al minimo (quasi a zero) gli investimenti sul prodotto, rinunciando colpevolmente a quelli su innovazione e ricerca, comprimendo sempre di più il costo del lavoro attraverso da un lato un feroce contenimento salariale e dall’altro attraverso processi di ristrutturazione che hanno accelerato l’uscita dei “vecchi” senza agevolare l’entrata dei “giovani” trasformata attraverso i contratti flessibili nella “generazione mille euro”, quando andava bene (la leva della svalutazione del lavoro che ha dovuto colmare anche la lacuna creata dalla scomparsa della svalutazione competitiva monetaria a causa dell’introduzione dell’euro).
E qui entra in ballo un’altra analisi compiuta da De Rita. Nella vecchia società, si accettava anche un lavoro poco gratificante nella certezza che a un certo punto sarebbe intervenuta la pensione che ci avrebbe aperto la porta a un’altra vita. Un percorso ora non più praticabile. Ma anche in questo caso, però, bisogna fare attenzione. Perché se in determinati settori del mondo del lavoro (soprattutto nel pubblico impiego) il pensionamento anticipato è stata una scelta finalizzata a una migliore qualità della vita futura (anche dal punto di vista delle gratificazioni professionali), in altri settori la scelta è stata imposta, obbligata, appunto da quei processi di ristrutturazione che nulla avevano a che fare con situazioni di crisi ma solo con la necessità di comprimere il costo complessivo del lavoro. Insomma, il pensionamento è stato utilizzato come ammortizzatore sociale, indipendentemente dalla volontà di chi al lavoro ci sarebbe rimasto volentieri anche perché andando via prima perdeva dei quattrini (con buona pace di Nannicini e Poletti che ritengono che nel passato non vi siano state “penalizzazioni”). Giustamente De Rita sottolinea un paradosso: abbiamo meno giovani che però non riescono a entrare nel lavoro perché la legge Fornero ha creato lo “scalone”. È una contraddizione perché in questa situazione demografica dovrebbe esserci spazio per tutti.
È evidente, allora, che il problema è riorganizzare la “società del lavoro” nel suo complesso. De Rita è convinto che non si possano governare i sistemi ma solo i sottosistemi. In questo caso, però, lo sforzo andrebbe fatto uscendo dalla gestione contingente della materia pensionistica e inserendola nella prospettiva più ampia della vita lavorativa in tutte le sue fasi (formazione, attività, riposo). Ma per fare questo bisogna tornare a ragionare insieme, a uscire dalla logica autoreferenziale dal punto di vista delle decisioni che ha animato sino ad ora questo governo, prendere atto, come ha sottolineato Benvenuto, che il confronto con i sindacati non è una perdita di tempo soprattutto se si vuole uscire da questa logica del giorno per giorno e da questa questa pratica che sta avvelenando la società italiana in virtù della quale più che dedicarsi alla definizione di soluzioni, ci si impegna nella ricerca di avversari, di bersagli da colpire con i kalashnikov e le bambole gonfiabili della polemica.
* Ugo Intini: “Lotta di classi tra giovani e vecchi?”, Edizioni Ponte Sisto, 2016, pp. 150, euro 12,00