Turchia, le “purghe” preparate prima del golpe

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-di ANTONIO MAGLIE-

L’Europa comincia a prendere atto che quello che sta accadendo in Turchia ha veramente poco a che vedere con la repressione di un golpe e che al metodo anti-democratico di chi voleva rovesciare con le armi le scelte del popolo-elettore, Recep Tayyp Erdogan sta rispondendo con un comportamento altrettanto anti-democratico, profondamente autoritario, annichilendo anche quel flebile barlume di diritti civili ancora esistente in quel Paese, eliminando non semplicemente chi ha provato a scalzarlo dal “trono” ma l’opposizione nel suo complesso. Il colpo di stato ha, insomma, fornito al presidente la possibilità di fare piazza pulita degli oppositori, anche di quelli che con i fatti di sabato notte non avevano nulla a che spartire. I numeri, d’altro canto, parlano chiaro perché è evidente che se la fronda alla base del tentato golpe fosse stata ampia come quella che emerge dagli arresti e dalle destituzioni, difficilmente da questa vicenda il “sultano” sarebbe uscito vittorioso.

I numeri, allora: sospesi 30 prefetti su 81, in tutto sono stati allontanati dal loro posto di lavoro 8.777 dipendenti del ministero dell’interno (in particolare 7.850 agenti); sono stati arrestati 103 generali e ammiragli, un terzo del totale; 9 giudici della corte suprema in manette, 2.745 sono stati rimossi dall’incarico. Probabilmente è questa contabilità che ha indotto il ministro dell’Interno Paolo Gentiloni ad affermare che la reazione al tentativo di golpe “non può essere una vendetta”. Mentre a sua volta il segretario di Stato americano, John Kerry, ha invitato la Turchia a rispettare “la democrazia e lo stato di diritto”.

L’Europa in questo momento ha veramente un grosso problema. Ha fatto un accordo con Erdogan sui migranti e sa bene che lui può muovere quelle masse a piacimento, aprire e chiudere il rubinetto: lo ha già fatto, lo farà ancora ispirato dalle sue urgenze e dalle sue necessità. Ma quello che era già un patto col diavolo, ora comincia ad assumere connotati molto più imbarazzanti. La storia della pena di morte che dodici anni dopo la cancellazione, la Turchia pensa di reintrodurre (e anche in questo caso il tentato colpo di stato sembra essere soltanto un pretesto) imbarazza tutte le cancellerie a cominciare da quella tedesca che si è maggiormente spesa per l’onerosa intesa con Ankara aprendo spiragli anche sul versante dei visti.

Non è un caso che ieri il capogruppo del Ppe al parlamento europeo, Manfred Weber abbia definito “irreale” l’ipotesi di “una completa adesione della Turchia alla Ue” aggiungendo che a questo punto la liberalizzazione dei visti finisce per inquadrarsi “in un futuro lontano”. Weber, stesso partito di Angela Merkel, non è certo una voce isolata. Il portavoce della cancelliera, Steffen Seibert, si è affrettato a confermare la posizione di Weber e a rincarare la dose sottolineando che la reintroduzione della pena di morte bloccherebbe il negoziato per l’adesione della Turchia alla Ue: “Siamo fermamente contrari alla pena di morte. Un paese che la pratica non può essere membro della Ue”. Ma non si è fermato qui, Seibert, parlando a proposito delle “purghe” in atto, di “episodi rivoltanti di giustizia arbitraria e di vendetta”. Una valutazione che ha trovato una conferma nelle parole del commissario europeo che gestisce il negoziato per l’ingresso della Turchia nell’Unione, Johannes Hahn, il quale ha spiegato che Erdogan aveva da tempo messo a punto le liste degli oppositori da spedire in galera o da rimuovere da posizioni di responsabilità. Per avviare le “purghe”, Erdogan attendeva solo l’occasione che è arrivata con il tentato golpe. Conseguenza: ora, dice Hahn, in Turchia sta avvenendo “esattamente quello che noi temevamo”.

Ai messaggi che arrivano dall’Europa, il premier di Ankara, Binali Yildirim, ha risposto con ambiguità levantina, da un lato confermando l’intenzione di andare avanti sulla strada della reintroduzione del patibolo spacciandolo per una richiesta popolare (“Il desiderio della pena di morte espresso dai nostri cittadini per noi è un ordine”), dall’altro, però, provando a rallentare il treno in corsa (“Prendere una decisione affrettata sarebbe sbagliato”).

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