Gli anziani non sono da rottamare ma da valorizzare

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Un tempo si diceva che una società che non rispetta e non ha cura dei propri anziani, è una società senza futuro. Sarà per questo che l’Italia appare sempre di più un Paese con un futuro estremamente incerto: tanto nel benessere economico quanto nei valori che faticano a essere trasmessi da generazione a generazione. Nel tempo, in questo Paese, è stata alimentata una anacronistica “guerra generazionale”: vi hanno speculato tutti, il centro-destra, il centro-sinistra e, adesso, con grande probabilità i nuovi come il Movimento 5 Stelle che si candida a governare. La retorica del giovanilismo, in fondo, in Italia ha sempre avuto notevole presa producendo anche delle tragiche avventure (basterebbe voltarsi indietro, rileggere un po’ di storia semmai approfondendo il fascismo e la sua ascesa al potere per rendersene conto).
Eppure in una società che invecchia come quelle che si definiscono di capitalismo maturo il problema della valorizzazione degli anziani diventa centrale per il futuro (ammesso e non concesso che se ne voglia avere uno). L’Italia della “rottamazione” renziana deve semmai prendere esempio dalla Germania paese in cui una grande azienda come la Volkswagen richiama in servizio i pensionati perché la loro esperienza è fondamentale per produrre auto in un certo modo e con una certa qualità. In Italia, invece, si discute di flessibilità pensionistica con l’occhio rivolto non tanto ai lavoratori quanto agli imprenditori che devono recuperare qualche spazio per liberarsi nel più breve tempo possibile di dipendenti avanti negli anni, con contratti più garantiti e, semmai, salari un po’ più alti per sostituirli con giovani a tutele (de)crescenti, salari più bassi e obbligati dalle condizioni di un mercato del lavoro asfittico ad accettare tutte le condizioni proposte, soprattutto quelle peggiori. Una società così che con spietatezza mette da parte (confortata anche dal lessico del rottamatore per antonomasia salito a Palazzo Chigi) le persone in virtù solo di caratteristiche anagrafiche e senza alcuna valutazione circa la loro utilità e professionalità ovviamente non va da nessuna parte. Ed in effetti si è impantanata, sotto i nostri occhi.
Quella che si svolgerà domani, 30 giugno, alle ore 17, presso i saloni della Fondazione Marco Besso in Largo di Torre Argentina a Roma, promossa dalle Fondazioni Nenni e Buozzi non è una riflessione sul passato, ma il tentativo di aprire una finestra sul futuro. L’occasione è la presentazione del libro di Silvano Miniati, protagonista della vita politica italiana a partire dall’immediato dopoguerra, dirigente sindacale di grande prestigio che ha legato il suo nome a numerose battaglie della Uil e, soprattutto, all’affermazione e al consolidamento di una idea moderna di “sindacato dei pensionati”. Quello di Miniati è un viaggio dal passato al presente, attraverso quella lunga militanza sindacale accanto agli anziani come segretario generale, a contatto quotidiano con i loro problemi. Che sono esattamente quelli di oggi. Anzi, sotto moltissimi aspetti oggi appaiono aggravati dall’incuria di una classe governate che ha trasformato i pensionati in una sorta di bancomat e dai colpi finali ed esiziali inferti dalla crisi economica alla qualità della loro vita, a cominciare dalle cure che spesso vengono saltate per prosaiche ma irrisolvibili questioni finanziarie. “Una ragione c’è. Ricordarsi di quando gli anziani erano considerati una risorsa”, questo il titolo del libro edito dalla Biblioteca Fondazione Nenni-Buozzi, che contiene un prezioso contributo di Rita Levi Montalcini, indimenticata e indimenticabile Premio Nobel. Al dibattito parteciperanno Alberto Brambilla, Giorgio Benvenuto, Gianni Fara, Gianni Geroldi, Domenico Proietti e Livia Turco; Sandro Roazzi provvederà a coordinarlo.

Ribellarsi è giusto

-di SILVANO MINIATI-*

Quando decisi di impegnarmi per realizzare questa pubblicazione, ero sinceramente convinto che si sarebbe trattato di una iniziativa semplice e rapida e comunque non eccessivamente impegnativa.
Sono però bastati pochi giorni dedicati alla ricerca di qualche documento e a riordinare i ricordi di avvenimenti che ritenevo più significativi per farmi prendere atto che non sarebbe stato affatto così.
Ho verificato di persona come uno dei limiti che mi porto dietro fino dall’infanzia diventi particolarmente pesante quando cerchi di rileggere il passato. Non sono infatti abituato a conservare diari o appunti e faccio fatica anche a mantenere in ordine una documentazione ben sistemata di atti e documenti delle organizzazioni alle quali ho attivamente partecipato.
È questo un limite che si avverte, soprattutto quando si è costretti a prendere atto che anche nel mondo dal quale si proviene sta vincendo quella che potremmo definire una vera e propria mania che spinge a cancellare tutto quanto appartiene al passato. È ovvio che ripercorrendo il sentiero dei ricordi, emerga la tendenza, guardando al presente a ritenere che tu le cose che fanno oggi coloro che sono venuti dopo di te, le faresti non solo in modo diverso ma magari anche meglio.
In questi casi è necessario ricordare che questa tentazione è una caratteristica tipica della vecchiaia che quasi sempre fa correre il rischio di essere eccessivamente benevoli con se stessi ed eccessivamente critici e negativi verso gli altri.
Guardando alla realtà di oggi e alla condizione, davvero disperante nella quale si stanno venendo a trovare milioni di anziani, si è rafforzata in me la convinzione che il disorientamento è davvero molto serio.
Tante volte ci siamo detti o abbiamo sentito dire che gli anziani rappresentavano una risorsa preziosa.
Guardandosi intorno ed esaminando l’atteggiamento della nostra classe dirigente si fa davvero molta fatica a pensare che si trattasse di affermazioni sincere. Quello che colpisce di più nell’agire collettivo è la progressiva attenuazione di ogni capacità di lettura critica della situazione e quindi spesso anche di autocritica.
Un esempio su tutti. Personalmente sono stato un protagonista non certamente secondario della campagna della UIL contro l’evasione e per l’equità fiscale. Quella campagna presupponeva anche una netta distinzione tra due principi fondamentali: “la previdenza a chi ne ha diritto, l’assistenza a chi ne bisogno”. Per noi era scontato che l’assistenza a chi ne aveva bisogno significava necessariamente l’adozione di meccanismi di controllo contro ogni forma di abuso e quindi l’ISEE era uno degli strumenti utili all’interno della nostra battaglia.
Quello che non avevamo messo in conto era che potesse succedere che uno strumento nato per favorire l’equità e la giustizia sociale diventasse una sorta di mannaia da usare contro i poveri e i cittadini più deboli. Nessuno di noi sicuramente immaginava che un governo come quello italiano, nato sull’onda di tante speranze potesse favorire una gestione dell’ISEE che colpisce duramente i redditi bassi, e le loro famiglie, proteggendo invece coloro che continuano a evadere le tasse e lo fanno in maniera sempre più massiccia e smaccata, usando anche la cancellazione di fatto della tracciabilità.
Se l’ISEE lo usi per limitare le integrazioni al minimo per i pensionati in Italia e all’estero, per impedire di fatto l’accesso ai nidi a famiglie che superano di pochi centesimi “la soglia” di un reddito comunque insufficiente a garantire una vita dignitosa e se poi al momento che si trovano alle prese con il ricovero di un parente anziano che non sono più in grado di mantenere e assistere a domicilio, se si decide di applicare rigidamente le norme sui “tenuti al mantenimento” e si chiede a famiglie non in grado di sopportare il costo di partecipazione al pagamento della retta della casa di riposo, devi prendere atto che siamo ormai entrati in una logica davvero aberrante. Quando poi sempre grazie all’applicazione dell’ISEE si nega l’accesso alla mensa ad un bambino figlio di genitori inadempienti ti si accappona la pelle.
Sembra ormai accettato da chi governa che tutti i mali del mondo, non solo in Italia, dipendono dalle protezioni sociali spettanti ai cittadini. La Gran Bretagna chiede di rimanere in Europa solo se viene accettata la sua pretesa di non essere obbligata a rispettare i diritti dei più bisognosi. La Grecia può essere assolta e salvata dalla troika solo se toglie ai cittadini greci anche il diritto di respirare. I Paesi della ex area sovietica tanto bravi nel costruire barriere di filo spinato garantiscono in realtà ai loro anziani poco più del diritto di morire.
Non è certamente questo l’orizzonte interno e internazionale per il quale ci siamo battuti per decenni. Non è questa l’Italia per la quale abbiamo salvato i macchinari, rimosso le macerie, rompendoci la schiena per rimetterla in piedi e per far si che riconquistasse la sua dignità di nazione.
Tutto quello che avviene sotto i nostri occhi è ogni giorno più scandaloso. Tuttavia piangersi addosso servirebbe davvero a poco e imprecare non risolverebbe i nostri problemi. Dobbiamo convincerci che rifiutarsi è giusto. Sono convinto che quando la qualità della vita e quindi della condizione umana di milioni di persone è quella che abbiamo di fronte, protestare diventa sacrosanto. Protestare significa mettercela tutta nel dire basta, e nel dirlo forte non solo in quanto pensionati ma in quanto donne e uomini che sono stufi di sentirsi magari elogiare per quello che hanno fatto fino a ieri da parte di chi concretamente opera per toglierli di mezzo e cancellarli dalla scena.
Se il risultato finale di questo lavoro dimostrerà che si è trattato di un modesto ma utile contributo, il merito ovviamente è mio solo in parte.
Un grazie sincero a Raoul Ngueguim Kentsop, a Maria Angela Panno, a Marco Zeppieri e in particolare a Giorgio Benvenuto. Giorgio ha messo a disposizione utili e belle fotografie, documenti e soprattutto consigli preziosi, oltre alla presentazione che segue della quale sono grato e orgoglioso e che lascio ovviamente al giudizio dei lettori
Un grazie anche a Piero Lauriola e Sandro Roazzi per il loro amichevole contributo frutto sicuramente anche di una lunga amicizia.
Il mio Grazie va ovviamente a coloro che riterranno utile leggere e ricordare le cose scritte se non altro in base all’imperativo di non perderci di vista.

*Presentazione del libro di Silvano Miniati: “Una ragione c’è – Ricordarsi di quando i pensionati erano considerati una risorsa”, Biblioteca Fondazioni Nenni-Buozzi
Le riforme che aspettiamo

-di GIORGIO BENVENUTO-*

Silvano Miniati scrive non già nelle vesti dello storico, ma di chi è stato partecipe di una storia che ha avuto i colori dell’epopea, la storia di tanti politici e sindacalisti che non trionfarono mai, ma che non furono mai vinti. Uomini e donne che del loro operare hanno lasciato un segno incancellato, incancellabile.
“Ogni processo storico – scriveva Gaetano Arfè – ha in sé sbocchi tendenzialmente diversi, ed è certo che il solo modo per rendere irrimediabile una sconfitta è quello di non dare battaglia, fingendo di non accorgersi o addirittura non accorgendosi, come è accaduto alla sinistra sociale e politica, che la battaglia sia in corso”.
La realtà con cui dobbiamo fare i conti è che non ci sono più né diritti né legittimazioni acquisite per nessuno, a partire dai sindacati. Siamo costretti – dice Silvano Miniati – a mettere in discussione tutto, a cominciare da noi stessi, dalla nomenklatura di cui ciascuno di noi fa parte.
Sono in crisi le ideologie. Il mondo italiano vive in un continuo processo di precarizzazione. Che cosa si potrà sostituire a questa liquefazione? Non lo sappiamo ancora e questo interregno durerà abbastanza a lungo. Bauman osserva come, finita la fede in una salvezza proveniente dall’alto, dallo Stato o dalla rivoluzione, sia tipica dell’interregno l’indignazione. Si sa cosa non si vuole. Non si sa cosa si vuole. I movimenti politici e sindacali agiscono; nessuno però sa più quando e in quale direzione. C’è un modo per sopravvivere? C’è. Si vive in una società liquida che richiede, per essere capita e forse superata, nuovi strumenti.
Emerge un individualismo sfrenato: nessuno è più un compagno di strada di ciascuno ma un antagonista da cui guardarsi. Questo soggettivismo mina le basi della modernità, la rende fragile. Si perde la certezza del diritto. Le uniche soluzioni per l’individuo sono l’apparire a tutti costi, l’apparire come valore.
In questo scenario Silvano Miniati, con la baldanza velata dall’ironia che lo distingue ma che in ogni caso è giustificata, pensa che bisogna mettere ordine tra le nostre informazioni, i nostri dati, le nostre proposte. Un po’ di lavoro di manovalanza politica non guasta. Di intellettuali che dopo aver detto di essere al servizio dei lavoratori parlano a loro nome servendosi di astrusi laboratori ideologici, ne abbiamo tutti le tasche piene.
I saggi traggono profitto dagli stolti più che gli stolti dai saggi perché i saggi evitano gli errori degli stolti, ma gli stolti non imitano i successi dei saggi. Di qui la necessità di essere più saggio degli altri senza, però, dirlo a nessuno.
Il risanamento dei conti economici e sociali non può essere solo di carattere finanziario. I termini di questa strategia non sono così facili come da molte parti si vorrebbe far credere. Tra le forze tradizionali, che si è soliti etichettare di sinistra, resiste la convinzione che sia sufficiente fare la scelta di stabilire se i sacrifici debbano essere sostenuti dai forti o dai deboli. La sinistra si ostina a immaginare che nella società di oggi ci siano da una parte i ricchi borghesi che Grosz immaginava con le dita grasse cariche di anelli di diamanti, mentre dall’altra ci siano i proletari dipinti da Pelizza da Volpedo. E che basti sezionare con una sciabolata gli strati sociali, dicendo: “quelli in alto dovranno pagare, quelli in basso no”.
Silvano Miniati ha avuto chiara la necessità di superare questi schematismi che sono stati e sono ancora oggi il vero zoccolo duro della vecchia sinistra. A partire dalla seconda metà degli anni ’70 è stato tra i costruttori della nuova immagine della UIL. Tutte le iniziative culturali, economiche, sociali, politiche della UIL hanno visto la sua convinta partecipazione. Ricordo la costituzione del CREL (Centro Ricerche Economia e Lavoro) con Federico Mancini, Piero Craveri, Paolo Leon, Giuseppe Pignatelli, Paolo Garonna, Aldo Canale; le battaglie contro l’evasione fiscale condotte dal gruppo di cui facevano parte Giancarlo Fornari, Michele Gerace, Salvatore Tutino, Giampiero Sestini; la trasformazione della UIL nel sindacato dei cittadini; la scoperta e la valorizzazione degli anziani.
Silvano Miniati ha dato alla UIL e al movimento sindacale idee, proposte e strategie. Una intuizione geniale è stata l’organizzazione di tutti i pensionati in un sindacato. I pensionati erano fuori dalla militanza sindacale, erano destinatari di misure assistenziali, militavano dispersi come semplici iscritti nelle categorie di provenienza. Nella vecchia UIL nessun dirigente sindacale voleva impegnarsi tra i pensionati, tutti erano convinti che fosse una mortificazione. Silvano Miniati, invece, trasformò il sindacato dei pensionati in una organizzazione viva, vivace, autorevole, preziosa, solidale. Gli anni Ottanta e Novanta hanno registrato la partecipazione convinta degli anziani a tutte le battaglie, da quelle contro il terrorismo a quelle dei diritti civili ambientali, da quelle per i giovani e per il Mezzogiorno a quelle per l’Europa sociale e per la solidarietà per i più poveri ed i più sfruttati. L’anziano è una risorsa. L’organizzazione sociale va cambiata. La donna e l’uomo anziani hanno un prezioso, inestimabile valore. Si deve pervenire ad una Carta dei diritti dell’anziano costituita non soltanto da enunciazioni di principio, ma da un sistema di diritti soggettivi concretamente azionabili. I fondamenti di tali diritti si rinvengono nella Costituzione repubblicana che sancisce il diritto alla salute e al mantenimento e sviluppo della condizione economica e sociale dell’anziano.
Cadute le ideologie, caduta l’idea della rigidità delle divisioni sociali lo spartiacque non è più tra proletari e borghesi, ma soprattutto tra chi ha rendite, vantaggi e privilegi e chi non ce l’ha. Le rendite possono essere di tanti tipi: rendita è l’impresa assistita; rendita è il cartello delle assicurazioni; rendita è l’evasione e l’elusione fiscale; rendita è l’arretratezza del sistema bancario; rendita è quella delle regioni a statuto speciale, e così via. Va separato il vecchio dal nuovo, tagliando i privilegi, senza farsi deviare dalle pressioni clientelari, con la necessaria equità.
La via al risanamento non deve passare per forza per la negazione della crescita.
L’alternativa è tornare alla politica pacioccona e sbracata di sempre. La politica di qualche aggiustamento di qua, di qualche taglio di là, colpendo di più dove si sente strillare di meno: la politica dei ticket, degli aumenti del bollo e della benzina, degli incrementi dell’Iva, degli incrementi delle addizionali. La politica forte con i deboli, e debole con i forti. Il vero deficit è l’assenza di veri interventi di riforma, di aggiustamento, di modernizzazione.
Da qualunque parte ci si volti, qualunque angolo del tappeto si sollevi, ci si trova di fronte ad un accumulo polveroso di decisioni a lungo ponderate, discusse, programmate e poi sempre rinviate. Il ventennio della cosiddetta seconda repubblica non ha praticato il riformismo, ha sviluppato il revisionismo in senso peggiorativo e iniquo dello stato sociale.
Stiamo scaricando sulle generazioni future i costi dei sistemi di finanza pubblica e sicurezza sociale, anche quelli delle mancate scelte. Come le nostre grandi città lasciate sviluppare su se stesse senza una fisionomia precisa, così si lascia crescere il nostro sistema senza essere capaci di dargli una prospettiva e una direzione di sviluppo.
Sì, abbiamo fatto dei passi in avanti, siamo entrati in Europa, abbiamo l’euro, ma a prezzo di quali squilibri e con quali prospettive di rimanervi?
Esiste – si dice – un “conflitto generazionale”. I pensionati attuali si “mangiano” con le loro pensioni i contributi dei figli e dei nipoti, soggetti spesso a rapporti precari, saltuari e poco retribuiti. E’ un’affermazione tendenziosa. Le pensioni dei giovani di oggi saranno pagate con i contributi dei loro figli e nipoti, secondo la logica del “sistema a ripartizione”. Se le future pensioni contributive saranno modeste dipenderà esclusivamente dalla precarietà e discontinuità lavorativa e dal fatto che la rivalutazione del montante contributivo annuale ed i coefficienti di trasformazione sono mal calibrati, sono addirittura punitivi. Si tratta di problemi squisitamente politici che nulla hanno a che vedere con la responsabilità degli attuali pensionati.
L’approccio alla questione previdenziale va modificato. Occorre ripristinare quel clima di collaborazione e di fiducia che aveva caratterizzato la modernizzazione dell’INPS e il comportamento del Governo soprattutto quando era Presidente del Consiglio Lamberto Dini e Presidente dell’INPS Gianni Billia.
Il sistema previdenziale è ora accentrato tutto sull’INPS. Così come è strutturato non funziona. Occorre invece dividere la previdenza dall’assistenza anche istituzionalmente prevedendo due istituti ad hoc, al posto del mastodonte INPS. Va decisa una governance che, autonoma nella gestione, abbia un sistema di controllo e di monitoraggio espresso dalle parti sociali. E’ inaccettabile l’uso disinvolto e qualunquistico, ad usum delphini – dei dati; è fondamentale che si realizzino operazioni di equità e di solidarietà senza snaturare il ruolo della previdenza fondato sui contributi versati.
Gli anziani – come i giovani – devono e possono rappresentare una risorsa per il paese. Esasperare conflitti e contrapposizioni può consentire di raccogliere consensi nell’immediato. Ma alla lunga non si mantengono: sono effimeri. Il paese ha invece la necessità di rafforzare la sua coesione e di non archiviare la solidarietà.
Ma non si può cambiare nulla se non si ha una visione critica del presente, se non si tiene il contatto con i dati della realtà economica e sociale.
Anche nel cambiamento si deve essere europei. Per antica abitudine, in Italia il cambiamento non è una cosa nuova che sostituisce il vecchio, ma una cosa nuova che si giustappone al vecchio e lo lascia sopravvivere. Conoscere per sapere, studiare per essere liberi e non subalterni, coesione ed unità del mondo del lavoro nella contraddizione delle grandi trasformazioni, il pensiero lungo che non si piega all’immediato ma guarda lontano per disegnare una società eguale e giusta: ecco i compiti che si deve prefiggere un sindacato moderno.
E vorrei concludere parafrasando ed attualizzando alcune riflessioni di Gaetano Arfè fatte a Indro Montanelli, troppo critico su Riccardo Lombardi: “E’ in corso un fenomeno tumultuoso e torbido che ha preso il nome di “revisionismo” e che ha investito con la furia devastante di una alluvione, cultura, politica, società. Quali le caratteristiche di questo revisionismo. Eccole: le scienze giuridiche sono scisse dai principi e degradate ad una somma di virtuosismi tecnici manipolati; l’economia è riportata ai tempi del capitalismo nascente quando c’era ancora tutto un mondo non da governare, ma da conquistare; la morale rimodellata secondo la legge della giungla; la sociologia divenuta tecnica dell’interpretazione delle statistiche e dei sondaggi al servizio del mercato delle merci e di quello dei voti, mentre la politologia ha preso il posto dell’astrologia nella conduzione della politica. Con questi ingredienti si è venuta costituendo l’ideologia della malafede, quella che adatta la coscienza alla regola della convenienza, quella che vede il mondo non in nero ma sporco”.
La vocazione libertaria di Silvano Miniati è da sempre molto forte; ha il gusto per l’eresia, per l’avventura intellettuale e politica. Non teme di andare in minoranza. Non contrappone in modo ortodosso le proprie idee. E’ aperto al dialogo su tutti i versanti, conservando sempre acuta e vigile la capacità di intendere la relatività e la precarietà delle ideologie, di cogliere in esse quello che viene travolto dal procedere vorticoso degli avvenimenti.
Infaticabile, tenace, testardo, curioso, creativo, spesso, troppo spesso ha avuto il torto di aver ragione prima del tempo.
Ecco perché il saggio “Una ragione c’è: ricordarsi di quando gli anziani erano considerati una risorsa” è un’offerta preziosa che consegna ai militanti politici e sociali.
Mi convince. Mi appassiona. Mi fa guardare con fiducia al futuro del sindacato.

* Prefazione del presidente della Fondazione Nenni al libro di Silvano Miniati: “Una ragione c’è. Ricordarsi di quando gli anziani erano considerati una risorsa”, Biblioteca Nenni-Buozzi

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Via Alberto Caroncini 19, Roma www.fondazionenenni.it

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