-di SALVATORE BONADONNA-
In Spagna i seggi si riaprono a pochi mesi dal voto del 20 Dicembre scorso. Non è stato possibile formare un nuovo governo. Mariano Rajoy, presidente uscente, capo del Partito popolare che aveva perso 3,6 milioni di voti, aveva cercato la “grossa coalizione” con il Psoe, uscito molto malconcio dalle elezioni, non è riuscito a fare l’accordo con Ciudadanos, la formazione del populismo centrista e liberista, per paura di esserne risucchiato e pagare ulteriormente un prezzo di consensi. Ciudadanos si presenta come forza liberista sana e conseguente contro quella corrotta e corruttrice del PP; la concorrenza è spietata.
Il Psoe, una volta grande partito socialista, aveva ottenuto il peggior risultato della sua storia anche per la deriva liberista e l’accoglimento cieco delle politiche di austerità imposte dalla UE a trazione tedesca. Il suo nuovo segretario Pedro Sànchez, incaricato di formare il governo, è stato costretto a rinunciare perché la maggioranza dei notabili del suo partito ha messo il veto ad una alleanza con Podemos. Anche in questo caso è il timore della concorrenza la remora.
Sostanzialmente PP e Psoe non intendono prendere atto che il sistema bipolare su cui avevano costruito le rispettive fortune, anche attraverso leggi elettorali quasi a misura delle loro esigenze, non regge più, la società non è disposta a schierarsi in tifoserie e, piuttosto, diserta le urne. Anche in Spagna, come in Italia, come si è visto in Austria, l’autoreferenzialità dei partiti tradizionali fa ostacolo alla lettura della realtà e della crisi sociale. E le conseguenze di questa miopia politica possono essere drammatiche, come si è rischiato in Austria, è tanto più gravi per le forze che provengono dalla tradizione storica della sinistra.
Anche nella sinistra radicale di alternativa i problemi non sono mancati. Podemos e il suo leader Pablo Iglesias, proiettato a costruirsi come capo di una Syriza spagnola, forte di un risultato brillante alle europee, interlocutore di Tsipras, ha puntato all’autosufficienza del movimento, definito “né di destra né di sinistra”, e alla possibilità di superare il Psoe. Su questo assunto Iglesias aveva rifiutato a livello nazionale la coalizione organica con le forze storiche della sinistra comunista e con Izquierda Unida che, invece, aveva dato risultati importanti nelle elezioni amministrative con la conquista delle municipalità di Madrid e di Barcellona.
Il quadro che si prospetta con il voto di domani, 26 giugno, non è facilmente prevedibile ma alcune considerazioni è bene averle presenti per tentare di capire cosa potrà emergere dagli scrutini.
Occorre considerare le vittorie di Madrid e Barcellona: esse dicono che l’unità delle forze della sinistra se orientate a rappresentare una alternativa alla gestione neoliberista anche delle amministrazioni locali può vincere. Ada Colau, neosindaca di Barcellona, ha costruito la sua coalizione dal basso, contro gli sfratti ad opera delle banche, contro i tagli al welfare e la disoccupazione, collegandosi al grande movimento degli “indignados” che per quattro anni ha lavorato nei quartieri della città contro le politiche di austerità e la corruzione. A Madrid, un’altra donna, stimata giudice, diventa il polo di aggregazione di tutta la sinistra e delle aspirazioni delle classi meno abbienti e del ceto medio impoverito.
Credo che queste esperienze abbiano fatto maturare la nascita della coalizione unitaria di sinistra, da sempre perseguita dal giovane segretario di Izquierda Unida Alberto Gàrzon, e chiarito che il non essere né di destra né di sinistra ha un significato di contestazione del sistema politico e non di declinazione genericamente interclassista. L’accordo tra Podemos e IU può portare questa formazione a diventare la seconda forza politica scavalcando il Psoe; e questo sarebbe un fatto di assoluto rilievo. I Popolari di Rajoy si aspettano un recupero e gli osservatori spagnoli più attenti dicono di una crescita dell’astensionismo che penalizzerebbe ulteriormente il Psoe.
Abbiamo imparato, anche dalle lezioni di questi giorni, che tanti sondaggi sono funzionali ad influenzare il voto secondo le proprie aspettative o, peggio ancora, a confondere i dati con le speranze. Può prendere forza una coalizione di centrodestra se Rajoy recuperasse, come si dice convinto, gran parte dell’elettorato perduto a dicembre; ma può anche manifestarsi un successo forte della coalizione della sinistra, comprensiva delle diverse componenti, capace di indurre il Psoe a sostenere un governo di alternativa. Ma neppure è da escludere che questo porti ad una condizione di stallo non dissimile da quella verificata a dicembre. Forse questo servirebbe a rendere più evidente che il sistema di post-democrazia con cui si esercita un potere reale, al riparo di elezioni formali sempre meno partecipate, e in nome della finanza e dei mercati, si avvia a concludere il suo ciclo ultraventennale. Sarà bene riflettere adeguatamente su questa eventualità perché chiama in causa le prospettive delle generazioni future e non solo la condizione materiale dei ceti subalterni di oggi.
Alle spalle del voto spagnolo di oggi stanno i risultati elettorali delle amministrative italiane, che hanno un segno marcato ma anche composito di contestazione di sistema; e sta il risultato del referendum inglese che esprime, sostanzialmente da posizioni di destra xenofoba e sovranista, il malcontento verso questa Unione Europea priva di anima e mossa solo dai mercati. Non sono segnali omogenei e hanno significati anche contraddittori. Una cosa mi pare certa, le élite che hanno considerato e considerano il potere come cosa loro privata hanno di che preoccuparsi nei singoli paesi e a livello europeo. Forse il “pilota automatico” su cui Mario Draghi fondava il potere del mercato sulla politica comincia a dare segnali di défaillance. La questione sociale torna ad imporsi drammaticamente e, cosa per nulla tranquillizzante, può esprimersi in un quadro che non ha necessariamente sbocchi progressivi da quando la sinistra ha fatto cadere il progetto di alternativa di società fondato su eguaglianza e libertà.
Se il modello di Barcellona e di Madrid si affermasse in Spagna a livello nazionale potremmo essere rafforzati nella convinzione che un’altra Europa è possibile e non è quella della Brexit.