–di ANTONIO TEDESCO–
Migliaia di giovani lasciano il Sud Italia per recarsi all’estero : centomila ogni anno secondo le statistiche. La meta più gettonata è l’Inghilterra. È un fenomeno diverso da quello degli anni 50-70, ma iniziano ad esserci delle similitudini almeno nelle dimensioni. In quegli anni, superate le resistenze personali e scelta la destinazione, il problema più grave rimaneva reperire i fondi necessari a pagare un biglietto ed a finanziare il primo periodo di soggiorno all’estero. Recuperati i soldi per il viaggio, con una valigia di cartone si partiva. Oggi si tratta di giovani, scolarizzati (minimo diplomati), non necessariamente appartenenti a ceti medio-bassi che comprano un biglietto low cost.
Chiamiamoli “cervelli in fuga” (giovani altamente scolarizzati), “giovani neet” (cioè che non studiano e non lavorano) o in altro modo ma essi sono il simbolo di un Mezzogiorno che lentamente muore. Un fenomeno, come sempre è stato nella storia del nostro Paese, silenzioso, che fa poca notizia e non sembra rientrare nell’agenda della politica.
È un dato assodato che a spingere i giovani a lasciare la terra d’origine è principalmente la mancanza di opportunità di lavoro; infatti sono quasi due milioni i ragazzi disoccupati, il 50% dei quali si rifugia in Garanzia giovani (misura che non sta dando gli effetti sperati).
L’aumento dell’occupazione nel 2015 registrato dall’Inps riguarda prevalentemente i lavoratori sopra i cinquant’anni che hanno beneficiato della trasformazioni a tempo indeterminato di rapporti precari (grazie agli sgravi del Job Act), per i giovani invece ancora pochissime opportunità.
È un fenomeno complesso, frutto di tanti elementi concatenati, che meriterebbe di essere studiato da un osservatorio nazionale creato ad hoc; perché sembra, dalle poche indagini sociologiche, che la sfiducia dei giovani nella propria Regione – o Città di origine – sia determinata non solo dall’assenza di opportunità lavorative, ma soprattutto da ragioni ambientali. Mafia, scarsa qualità della politica, poca sicurezza, scarso senso civico; insomma il Sud per molti giovani è il luogo delle “radici”, dove vivono i parenti anziani, il luogo dove trascorrere piacevolmente le vacanze ma non il contesto ideale dove costruire una famiglia e fare figli.
Uno scenario desolante: i giovani abbandonano il Mezzogiorno al proprio destino condannandolo a essere tra le aree più povere d’Europa. Non si riesce a vedere la luce fuori dal tunnel, la disoccupazione è alle stelle, le infrastrutture sono da terzo mondo, è alto il rischio della desertificazione industriale e la pubblica amministrazione nela maggior parte dei casi non funziona.
In mezzo alle difficoltà arrivano messaggi di speranza dalla manifestazioni di ieri (7 maggio) dei sindacati in Sicilia, regione in grave difficoltà. A Palermo, lavoratori, pensionati e giovani hanno chiesto una vera svolta per ripartire, “nella convinzione – così ha concluso il suo discorso il Segretario della Uil Barbagallo – che se non ripartono la Sicilia e il Sud, la ripresa del Paese resterà per sempre una chimera”.
Bisogna agire in fretta, la situazione sta peggiorando, ma che fare? Intanto sarebbe urgente fare un piano pluriennale di investimenti pubblici in infrastrutture e cultura, ascoltando i sindacati, i Comitati locali, le associazioni. Non bastano i proclami governativi e gli incitamenti del Premier, che invita a “non lamentarsi”. È importante far sentire la presenza dello Stato lavorando con il Mezzogiorno che si impegna onestamente, iniettando una buona dose di fiducia tra i cittadini, provando a riqualificare, con il tempo, la classe politica meridionale attraverso una più accorta selezione, impegno che deve riguardare i partiti ma anche i cittadini-elettori.