-di ANTONIO MAGLIE-
Questa volta non sono spuntati i trionfalistici comunicati del ministro del lavoro, Poletti, né l’universo mondo è stato inondato dai tweet del presidente del Consiglio, Renzi, né si è levato il coro dei “soffiettisti” a contratto parlamentare. L’Inps è stata lasciata “sola” con il suo presidente, Boeri, a illustrare dati che gettano un’ombra lunga sulle certezze esibite nel corso del 2015 relativamente alle magnifiche sorti e progressive di Casa Italia. Perché i dati spiegano un paio di cose. La prima: non è con le leggi e le decontribuzioni che si crea realmente occupazione. La seconda: che l’attenzione degli imprenditori verso un tema come quello della crescita e della nuova occupazione è direttamente proporzionale alla dimensione degli “sconti (contributivi, fiscali, eccetera) che il governo può loro garantire. Terzo: non è inseguendo i paesi in via di sviluppo nella strada dell’indebolimento dei diritti che garantiremo la crescita attraverso un flusso massiccio di investimenti dall’estero. Quarto: non esistono modelli che aprono le porte della “felicità” perché anche quelli dichiaratamente inseguiti dal Premier presentano non poche (né secondarie) caratteristiche di infelicità.
La premessa. L’Inps ha reso noti i dati dei nuovi contratti a tutele crescenti stipulati a gennaio del 2016, cioè con la decontribuzione decurtata del 40 per cento. Sono stati 107 mila con un calo del 39,5 per cento rispetto allo stesso mese del 2015, molto meno di un terzo rispetto a dicembre (380 mila), ultimo periodo utile per acciuffare lo “sconto” per intero. Poi è vero: nel 2015 i contratti a tempo (forse) indeterminato sono stati 1,93 milioni contro l’1,2 del 2014 con un aumento di 660 mila rapporti. A questi bisogna aggiungere anche le 654 mila trasformazioni dei rapporti di apprendistato (nel 2014 erano state 401 mila: un incremento del 63 per cento). Sul 2014 si è avuto un aumento del 54 per cento dei contratti a tempo indeterminato (913 mila). Su 2,5 milioni di rapporti, un milione e mezzo (il 62 per cento) hanno usufruito della decontribuzione, dato che ha indotto qualche superficiale commentatore a tirare in ballo il famoso slogan berlusconiano del milione di posti di lavoro: ma quelli promessi (e non mantenuti) dell’ex Cavaliere erano da presumere aggiuntivi; il milione e mezzo attuale non lo sono trattandosi in larga misura di trasformazioni. Insomma, “riciclaggio” contrattuale. Per carità, utile e benefico ma dato che il Jobs Act garantisce ampia libertà di licenziamento, i conti definitivi si potranno fare solo fra un paio di anni e rischiano di regalare delusioni come quelle maturate con la pubblicizzazione di questi numeri da parte dell’Inps.
Una cosa è certa: inutile farsi illusioni sul fronte del precariato. Non è stato sconfitto e sta assumendo i connotati di un fiume carsico. Un fiume carsico con un nome che può apparire anche rassicurante: voucher. Sono gli strumenti con i quali si paga il lavoro temporaneo: nel 2016 ne sono stati venduti 9,2 milioni (valore nominale: 10 euro), con un incremento del 36 per cento rispetto al 2015. E’ la nuova frontiera della precarizzazione e svalorizzazione del lavoro, una frontiera che avrà come conseguenza l’incremento dei working poor, i lavoratori poveri, un ossimoro sino a quattro decenni fa perché chi lavorava di solito povero non era. Da questo punto di vista, stiamo applicando il modello tedesco (dichiaratamente inseguito da Renzi) dove, secondo i dati di un seminario organizzato a luglio del 2014 dal Cnel (Working poor: un’analisi sui lavoratori a bassa remunerazione dopo la crisi”) l’incidenza di questa “sotto-categoria” sul totale della forza lavoro impiegata era in Germania pari 22,2 per cento. Noi stavamo molto meglio: 12,4 ma, come è noto, da queste parti le strade che portano verso il meglio sono sconosciute, quelle che conducono al peggio sono, al contrario, notevolmente trafficate.
Il fatto è che non esiste una “via legislativa” all’occupazione perché se esistesse il nostro tasso di disoccupazione sarebbe pari a zero visto che negli ultimi quindici anni quasi tutti i governi si sono cimentati nel rimaneggiamento (peggioramento) della legislazione sul lavoro inseguendo modelli liberisti in base ai quali più che guardare avanti, cioè verso i paesi più evoluti, dovevamo guardare indietro verso quelli meno evoluti, per entrare con loro in concorrenza attraverso la flessibilità (si può leggere pure, precarietà). Un circolo, a parere dei “teorici” di questo club, che avrebbe assunto caratteri virtuosi portando in Italia investimenti stranieri. Nel frattempo, stiamo svendendo pezzi importanti della nostra manifattura indebolendo così il sistema e ponendo le basi per un peggioramento della situazione italiana dal punto di vista manifatturiero.
Torna utile riproporre alcune analisi. “La distribuzione mondiale del reddito è più disuguale di quella del prodotto, perché i paesi che detengono il prodotto pro capite più elevato detengono anche, tendenzialmente, una quota di capitale di altri paesi, e dunque, tendono a incamerare un flusso positivo di redditi da capitale provenienti da paesi il cui prodotto pro capite è più basso. In altri termini i paesi ricchi sono ricchi due volte, sia in quanto prodotto interno sia in quanto capitale investito all’estero”. E ancora: “Nessuno dei paesi asiatici che hanno in qualche misura agganciato i paesi più sviluppati, ieri il Giappone o la Corea o Taiwan, oggi la Cina, ha beneficiato di massicci investimenti stranieri. In sostanza questi paesi si sono finanziati da soli gli investimenti in capitale fisico di cui avevano bisogno e in capitale umano… Al contrario, i paesi posseduti da altri, come nel caso dell’epoca coloniale o dell’Africa di oggi, sono stati più penalizzati”. L’autore è Thomas Piketty (Il Capitale nel XXI secolo, Bompiani, 2014, pagg. 111 e 115): si può condividere e si può anche non condividere. Ma il dubbio resta: non è che (s)vendendo pezzi del nostro sistema industriale nell’illusione che la nostra fortuna arriverà dai capitali stranieri, stiamo impoverendo l’Italia e arricchendo tutti gli altri che vengono qui a fare shopping? Perché se così fosse più che pensare alla legislazione sul lavoro, dovremmo mettere mano a una seria politica economica che si ponga l’obiettivo che altri (Germania, Francia) si pongono: cioè la difesa delle proprie trincee industriali.