La resa dello Stato laico

il-vaticanodi Antonio Maglie

Più diminuisce il numero dei cattolici praticanti e più aumenta il peso politico della Chiesa. Quando è crollata la Prima Repubblica portandosi via la Dc molti hanno pensato che si potesse chiudere la fase confessionale della vita pubblica. In realtà è avvenuto il contrario: la mancanza di riferimenti ideali dei nuovi partiti si è trasformata nella ricerca di una accentuata trasversalità elettorale. E’ finita la Dc ma tutti hanno utilizzato il suo modello (interclassista, veniva definito) per la ricerca del consenso. Risultato: se le Gerarchie ecclesiastiche prima avevano un solo punto di riferimento, ora ne hanno tanti (i “forni” andreottiani); e se il punto di riferimento di allora dopo la tremenda sconfitta subita da Amintore Fanfani nel referendum sul divorzio assunse progressivamente sui diritti civili un atteggiamento più prudente, adesso la rincorsa al voto in una fase di accentuato astensionismo si è fatta più sfrenata e disinvolta. Tra veri credenti, cattolici “strumentali”, “atei fedeli” e presidenti del consiglio che preferiscono fare i pesci in barile per non mettere troppo a rischio la propria poltrona semmai mandando avanti qualche alleato di comodo, le scelte parlamentari nel nostro Paese sembrano essere dettate più dalle parrocchie che dalla necessità del vivere collettivo; non siamo, come invoca il cardinale Bagnasco, all’inserimento della “legge divina nella città terrena” (che, peraltro, c’entra più con la teocrazia che con la democrazia), ma ben oltre, alla città terrena che sembra piegarsi senza alcuna riflessione critica alla legge divina (basta ricordare l’incivile luna park montato intorno al corpo devastato e dolente di Luana per rendersene conto; basta riflettere sulle difficoltà enormi che incontra l’ipotesi di un intervento normativo sul “fine vita” e anche in questo caso saremmo ultimi tra gli ultimi).

Tutto questo è stato determinato non da un rafforzamento della religiosità degli italiani (che, al contrario, è notevolmente diminuita) ma dal pericoloso indebolimento dell’idea laica dello Stato, dalla mancanza di forze politiche (i socialisti, i radicali, i sinceri liberali che a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta si batterono prima per il divorzio e poi per la regolamentazione dell’aborto) in grado di tenere viva una scena pubblica capace di guardare al cittadino come portatore di bisogni e, quindi, rivendicatore di diritti, e non al suddito al servizio di una “chiesa” in un Paese, l’Italia, che di chiese ne ha avuto tante e dal loro scontro-incontro ha quasi sempre finito per perdere qualcosa. Una storia lunga che trovò nel dibattito su un articolo della Costituzione un momento esemplificativo. Il 20 marzo del 1947, Piero Calamandrei, intervenendo sull’articolo 5 che sarebbe diventato 7, spiegò, inascoltato, a proposito del primo comma (“lo Stato e la Chiesa cattolica sono ciascuno nel proprio ordine indipendenti e sovrani”): “Questo non è un articolo che possa trovare posto in una carta costituzionale. E’ un articolo di un trattato internazionale; è un articolo di un trattato internazionale in cui due enti che si affermano tutti e due sovrani, si mettono d’accordo per riconoscere reciprocamente la loro sovranità. Ma la Costituzione, quella che noi stiamo discutendo, è l’atto di una sola sovranità: del popolo italiano, della Repubblica italiana. Qui parla soltanto il popolo italiano”. L’articolo, come è noto, passò anche per il voltafaccia di Palmiro Togliatti, una scelta che amareggiò Pietro Nenni, convinto che l’articolo 7 sarebbe stato approvato comunque ma a stretta maggioranza se i voti comunisti non si fossero cumulati a quelli democristiani.

Nell’ampio processo di revisione costituzionale Matteo Renzi e Maria Elena Boschi non hanno ovviamente mai preso in considerazione l’esigenza di mettere mano a quelle poche righe, in contraddizione, peraltro, con alcuni articoli della Costituzione. Anzi, si cercano mediazioni (come sino all’ultimo le cercò il Pci sul divorzio venendo anche lui “smentito” dalle urne referendarie pur avendo fatto, obtorto collo, campagna a favore della conferma della legge) al ribasso su unioni che sono molto più che civili, sono reali, sangue vivo della collettività: il compito del legislatore è quello di prendere atto della realtà disciplinandola al meglio, seguendo i principi della religione civile che riguarda tutti e non le indicazioni di Bagnasco che riguardano solo alcuni. I numeri, d’altro canto, dicono che il Paese è decisamente più laico di chi lo governa. Un sondaggio Ipsos di qualche mese fa predisposto per il “Corriere della Sera”, ha rivelato che il 74 per cento degli italiani è favorevole a quella legge. Un’altra indagine ha spiegato che il 54 per cento dei nostri connazionali è contrario all’insegnamento della religione a scuola e addirittura oltre il settanta per cento non accetta che i docenti di quella materia vengano pagati dallo Stato. I “praticanti” rappresentano ormai una esigua minoranza di questo Paese: il 24, 4 per cento e tra i giovani fra i 20 e i 24 anni la percentuale crolla al 15,4 (in quest’ultimo caso la fonte è proprio al di sopra di ogni sospetto: l’istituto Iard di Milano che realizzò lo studio per conto della Diocesi di Novara). Serve coraggio perché una politica senza coraggio non governa, al limite comanda ma facendosi dettare le scelte da altri.

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