–EDOARDO CRISAFULLI-
Anche a casa nostra c’è un terreno di coltura del fondamentalismo religioso. I batteri – odio, fanatismo – li produciamo anche in proprio. E non mi riferisco solo agli immigrati di cultura islamica e ai loro figli. Anche alcuni italiani “doc”, convertitisi all’Islam, hanno abbracciato la causa della guerra santa globale. I Jihadisti nostrani non propugnano un islamismo all’acqua di rose: sono altrettanto fanatici dei loro omologhi stranieri.
Fatima, prima di convertirsi e sposarsi con un jihadista straniero, era una ragazza italiana “normale” al pari di tante sue coetanee. Ora è ricercata per associazione con finalità di terrorismo. È partita per la Siria, impaziente come gli altri foreign fighters europei di dar man forte agli assassini dell’ISIS. Le milizie del sedicente Califfato islamico conducono una spietata campagna di pulizia etnica e religiosa spargendo il terrore ovunque arrivino: stupri, torture, sgozzamenti sono all’ordine del giorno. Ma Fatima non batte ciglio; è incrollabile nella sua nuova fede: “Questi che vengono decapitati sono ladri, sono ipocriti … Qui non schiavizziamo le donne ma le onoriamo… Lo Stato islamico è uno Stato perfetto. Qui non facciamo nulla che vada contro i diritti umani. Cosa che invece fanno coloro che non seguono la legge di Allah. Lo Stato islamico non tortura nessun prigioniero, ma agisce secondo la sharia. Secondo la legge di Allah misericordioso.” (Marta Serafini, “Parla Fatima, jihadista italiana: decapitiamo in nome di Allah”, Corriere della Sera, 2 luglio 2015.) Con queste dichiarazioni agghiaccianti, Fatima nega l’evidenza, ovvero che i miliziani dell’ISIS commettano crimini orrendi; anzi, le esecuzioni e le torture non le reputa crimini bensì punizioni esemplari, atti di giustizia. I veri criminali sono gli infedeli, i miscredenti. Il copione ci è già noto: questa è la stessa logica delirante che ispirava le SS e gli Einsatzgruppen nazisti che, nelle retrovie dei territori conquistati dalla Wehrmacht, annientavano ebrei, zingari, commissari politici, partigiani.
Più che il caso singolo, che potrebbe essere derubricato a follia, mi interessa il fenomeno della conversione al fondamentalismo. Perché degli italiani nati in famiglie cristiane – più o meno praticanti o credenti – decidono di convertirsi all’Islam, sposandone per giunta la versione più intollerante e fanatica? Una certa sinistra, quella che non ha smaltito la sbornia marxista, è fissata con le condizioni materiali o sociali: le privazioni, la povertà, il disagio sociale-famigliare, le guerre imperialistiche spiegherebbero ogni genere di ribellismo e terrorismo, incluso quello di matrice religiosa. Ma non v’è traccia di tutto ciò nel percorso di Fatima, ex studentessa universitaria “che amava truccarsi”; una ragazza cresciuta in una famiglia normale in una città qualsiasi del nostro Paese. La metamorfosi è apparentemente inspiegabile: Fatima di punto in bianco si trasforma in una terrorista animata da un odio feroce contro i miscredenti, categoria a cui lei stessa apparteneva prima della conversione. Non c’è da sorprendersi: il convertito, molto spesso, è più realista del re. Forse avverte il bisogno di perdonare se stesso per una scelta di rottura totale, che è un ripudio della sua cultura. La psicologia, qui, ha evidenti ricadute politiche. Ma perché un occidentale di origine cristiana non si esalta al pensiero di rinverdire le crociate, che non hanno nulla da invidiare alla jihad in termini di ferocia? Per comprendere la forza di attrazione della jihad nelle nostre società avanzate abbiamo bisogno della sociologia.
L’Islam è una religione universalistica. Mira cioè al proselitismo proprio come il cristianesimo. Ma vanta un primato rispetto a quest’ultimo: esprime tuttora una fede pura e incontaminata. È per questo che appare ‘maschio’ e guerriero agli occhi di chi brama una religione totalizzante. Noi la fede degli invasati non sappiamo più cosa sia. Chi avverte dentro di sé un vuoto ideale, chi sente il bisogno di assoluto e di perfezione in questo mondo caotico e imperfetto, non può trovare appagamento né nelle ideologie politiche, che sono ormai scomparse, né nel cristianesimo dal ventre molle dei nostri tempi. Non è un caso che in quesi ultimi anni alcuni fra i più accesi difensori dell’Occidente ‘cristiano’ siano stati intellettuali agnostici, se non addirittura atei, vicini alle posizioni dei teocon statunitensi. Tra questi si staglia la figura di Oriana Fallaci – la quale, che piaccia o meno, era di estrazione culturale azionista-illuministica. Il paradosso è che questi personaggi hanno difeso un’idea immaginaria di cristianità. Impauriti dalla minaccia islamista, hanno tentato di resuscitare il cristianesimo intendendolo come mera identità culturale. Ecco, secondo loro, lo scudo con cui difenderci dal furore di chi crede ancora in un Dio arcaico. Ma se trasformi Gesù, l’antipagano e l’illiberale per eccellenza, in una figura simile a quella di Giove di fatto assesti il colpo di grazia al cristianesimo, che solo da morto può divenire l’equivalente della mitologia classica. E infatti l’operazione teocon, oltre a rivelarsi politicamente sterile, è incomprensibile per gli islamisti più radicali, per i quali rivendicare una religione senza fede è una assurdità. Del resto, era così anche per i cristiani un tempo non troppo lontano. Nella mente del jihadista la religione cristiana contemporanea – quella professata dai pochi fedeli rimasti – ha perso il suo spirito vitale-combattivo, incarnato dai crociati e dai santi, perché è scesa a patti col demonio rappresentato dalla modernità. Detto in linguaggio laico: la cristianità si è irrimediabilmente secolarizzata. Anche i praticanti, ormai, praticano pochissimo e ben di rado. Per limitarci a un esempio: i sacrifici della Quaresima sono un pallido ricordo, una vecchia usanza per coloro – e sono anche questi una minoranza – che in Chiesa ci vanno tutte le domeniche. Pensiamo invece allo scrupolo religioso con cui i musulmani rispettano il mese sacro del digiuno detto Ramadan. Figuriamoci se un jihadista può comprendere una religione che non contempla più le guerre sante, né esalta più il martirio di chi si immola per Dio.
In Occidente permangono sacche di resistenza clericale, certo. Ma Atene, la città secolare, ha sostanzialmente vinto su Gerusalemme, la città sacra. Tutto questo equivale a dire che l’Occidente – l’Europa, credo, più degli Stati Uniti – è sostanzialmente scristianizzato, o quanto meno si è incamminato sulla via senza ritorno della scristianizzazione. Questo, a mio avviso, è il punto cruciale, dove psicologia e sociologia si congiungono: può darsi che i jihadisti nostrani siano individui ‘spostati’, instabili psichicamente, se non addirittura inclini alla pazzia. Ma cosa fa scattare la molla che li spinge a una ribellione antimoderna se non la crisi di valori dovuta allo stadio di sviluppo che ha raggiunto la nostra civiltà? Mi spiego. Per secoli l’uomo occidentale è vissuto in società impregnate di religiosità arcaica. La modernità – che è disincanto del mondo, morte del Dio trascendente, tramonto della sacra e immutabile tradizione – ha stravolto ogni cosa. Il problema è che la modernità procede a una velocità impressionante, che è aumentata in maniera esponenziale in questi ultimi decenni. Si tratta, credo, di un fenomeno inedito nella storia dell’umanità. Non tutti riescono a gestire e rielaborare psichicamente mutamenti così rapidi. Appena una cinquantina di anni fa – un lasso di tempo che è un pulviscolo nella storia umana – le Chiese erano affollate, i matrimoni erano per lo più religiosi, nei Paesi cattolici ci si divorziava di rado, le mogli erano sottomesse ai mariti. In 8 e mezzo, straordinario film modernista, Fellini ha rievocato, come solo un grande artista sa fare, i frammenti di un mondo che già nei primi anni Sessanta era in frantumi: si pensi soltanto a quegli onirici preti d’antan, superbi padroni di scuole e parrocchie che non esistono più.
I jihadisti hanno capito benissimo che il cristianesimo ha cambiato volto e pelle: si apprestano a riempire la voragine aperta dalla scristianizzazione (e dalla concomitante scomparsa delle ideologie politiche, surrogati in forma secolarizzata delle religioni). Non credo che l’Islam sia incapace di riformarsi, anche se è innegabile che finora solo alcune minoranze illuminate, nell’arcipelago islamico, hanno fatto i conti con la modernità. Rebus sic stantibus, l’Islam esercita un appeal straordinario in quanto è forse l’unica religione che, non avendo subito mutazioni genetiche, ha una cognizione esatta e puntuale di cosa fosse la fede dei nostri avi. E questa, per i convertiti, è un’espressione di geometrica potenza. Non lasciamoci trarre in inganno dalla stupenda traduzione dantesca della Vulgata – “Fede è sustanza di cose sperate/e argomento de le non parventi” (Paradiso, XXIV. 64-65). La fede – la convinzione di possedere l’unica verità, unita al folle desiderio di rigenerare l’umanità – è stata storicamente la sorgente del fanatismo più spietato, la miccia che fece deflagrare sul suolo europeo micidiali guerre di religione.
Non elogeremo mai abbastanza i religiosi modernisti – in ambito cattolico, il pensiero corre a Giovanni XXIII, lo straordinario papa ‘laico’ e riformatore che volle il Concilio Vaticano II e seppe imporlo a una Chiesa medievaleggiante, con la mente e il cuore rivolti al passato. Apprestiamoci dunque a una lunga lotta – culturale prima ancora che politica – contro chi sostiene anacronisticamente il predominio della città sacra. Ma non illudiamoci che basti sbarrare porte e finestre: la modernità è farina del nostro sacco. Ed è una sorta di farmaco potentissimo: disintossica, sì, le moltitudini dall’oppio religioso, ma porta con sé fastidiosi effetti collaterali.