-di NUNZIANTE MASTROLIA –
Se si apre un qualsiasi manuale di storia contemporanea e si va a leggere quali furono le cause della crisi del Ventinove e i tentativi di farvi fronte si può apprendere che a sbagliare tutto (e a peggiorare le cose) fu il presidente Hoover, ingabbiato all’interno dell’ortodossia del laissez-faire e con la sua fissazione per il pareggio del bilancio. D’altro canto si apprende che fu l’interventismo keynesiano di Roosevelt a salvare gli Stati Uniti. Ebbene, quando ci si imbatte, a decenni di distanza, in una crisi peggiore di quella del Ventinove dovrebbe essere quantomeno ragionevole provare a percorrere la via di Roosevelt. Ed invece, no: tutti a correr dietro a Hoover, tutti a proclamarsi figli di Hoover. Allora era diverso? Le due crisi non sono paragonabili? Nient’affatto. Cito da un normale libro di storia degli Stati Uniti: “E’ opinione abbastanza generale che la prosperità degli anni venti fosse stata costruita su fondamenta vacillanti. La più seria fra le debolezze occulte dell’economia è stata individuata nel fatto che l’incremento della capacità produttiva dell’industria aveva superato le possibilità di assorbimento dei consumatori. Una prima causa di tale situazione va ricercata nel fatto che una parte notevole della popolazione (…) era rimasta ai margini della generale prosperità. In secondo luogo l’aumento del reddito era mal distribuito. Profitti e dividendi erano cresciuti più dei salari, e la politica fiscale repubblicana aveva favorito le classi ricche. Nel 1929 un terzo dell’intero reddito nazionale andava al 5% della popolazione; nello stesso tempo il 71% dei cittadini americani aveva un reddito inferiore a 2.500 dollari l’anno, il minimo ritenuto necessario per vivere in modo confortevole. La maggioranza della popolazione, quindi, pur avendo migliorato le proprie condizioni, non era in grado di acquistare la propria quota di beni di consumo sostenendo così la produzione di massa. Altro motivo di insicurezza economica era il sistema bancario americano, per sua natura malsano. (…) Un’ulteriore elemento di instabilità fu la rapida espansione del sistema della vendita rateale, con garanzia sul salario, in quanto sosteneva il potere d’acquisto dei lavoratori dipendenti, ma non poteva moltiplicarsi all’infinito. Nello stesso tempo i bassi tassi di interesse del sistema federale di riserva e la politica del denaro facile, incoraggiavano la concessione di prestiti, denaro che veniva spesso investito in speculazioni nel mercato azionario”. Sia perdonata la lunga citazione, ma queste sono le stesse cause che hanno prodotto la crisi del 2008.
Dunque, le cause delle due grandi depressioni sono le stesse: il mercato senza interventi perequativi, da parte di attori esterni, arricchisce pochi ed affama i più; il ceto medio si sfascia, i consumi crollano e con essi l’occupazione e la produzione. Si può tentare di turare la falla facendo in modo che, pur essendo più povere, le persone continuino ad acquistare a debito, con il denaro a basso costo, con i mutui subprime e con massicce dosi di ottimismo (il mercato non sbaglia mai e il prezzo delle case non scenderà mai). Ma un tale espediente, se anche può funzionare per un po’, non può “moltiplicarsi all’infinito”.
Se la crisi è la stessa e se Hoover aveva torto, perchè applicare i suoi rimedi? E più in generale, se una cura si è dimostrata fallimentare, perchè non abbandonarla? Ed inoltre, quale medico curerebbe una scottatura versandoci sopra dell’olio bollente? Ebbene è proprio questo che si sta facendo in Europa: si utilizzano gli stessi principi e politiche, che hanno causato la crisi, come rimedio per curarla. La crisi è il prodotto dell’impoverimento delle classi medie. Dunque, logica vorrebbe che si facesse qualcosa per sostenere queste classi medie, per evitare che si impoveriscano ulteriormente, per sostenere la domanda aggregata e far ripartire così gli investimenti, le assunzioni, la produzione etc. In altre parole, politiche anti-cicliche per riattivare la crescita. E invece no, si fa l’esatto contrario: austerity, tagli allo stato sociale, costituzionalizzazione del principio del pareggio di bilancio etc…
Risultato? I consumi vanno giù, la disoccupazione va sù, i poveri aumentano, sempre più persone si ritrovano a passare allegre serate nelle mense Caritas, e il numero degli anziani con l’hobby di frugare nei cassonetti dell’immondizia cresce, mentre i ricchi diventano sempre più ricchi.
Eppure state certi che, nonostante ciò, si sarà sempre qualcuno (accade ormai da cinque anni), che dopo aver scrutato il volo degli uccelli e analizzato le viscere degli animali, sarà pronto a dire che là, lontano, all’orizzonte si intravedono i segni della ripresa, che è anzi prossima, sta arrivando; basta aver fede o fare qualche gioiosa danza della pioggia. Una cosa abbastanza paradossale: sarebbe come dire che con una lunga dieta a pane ed acqua prima o poi si prenderà peso. Per la cronaca, anche Hoover “convinto che i problemi del paese fossero di natura più psicologica che economica, fece una serie di affermazioni rassicuranti, minimizzando il numero dei disoccupati e promettendo che presto sarebbe iniziata una nuova fase di prosperità”, mentre l’opinione pubblica non riusciva proprio a comprendere, e stiamo parlando dei primi anni Trenta, “come mai fosse giusto utilizzare il denaro federale per salvare le banche e le grandi imprese e non si potesse usarlo invece per dar da mangiare agli affamati”. Poi dicono che la storia non si ripete mai.
La verità è che non ci sarà nessuna ripresa tale da poter risollevare le classi medie, e se anche, grazie alla suddetta danza delle pioggia, qualcosa dovesse muoversi non genererà benessere per tutti. Possiamo anche essere agli albori di una Terza Rivoluzione industriale, come sostiene Rikfin (in realtà ci siamo per davvero), ma date le norme sui salari, data la debolezza dei sindacati, dato l’abbandono del principio della tassazione progressiva e i tagli allo stato sociale, le nuove ricchezze prodotte scivoleranno dalle mani dei più per rifugiarsi tra le braccia dei pochi, ampliano ulteriormente la polarizzazione sociale, fino a che non si costituiranno due distinte nazioni come scriveva Disraeli in Sybil o due veri e proprio mondi separati, come nel film Upside Down.
A meno che non si abbandonino quelle idee (quel paradigma) che hanno causato la crisi. Già, perchè la crisi non è il risultato della deriva dei continenti, nei confronti della quale si può fare bene poco, ma è un fenomeno umano, creato dall’uomo e quindi reversibile.
E’ il prodotto di alcune idee, che dopo aver lottato per decenni, sono riuscite a trasformarsi in paradigma dominante, che in forza di ciò si è trasformato in linee politiche, in leggi e, nel caso europeo, in trattati che vincolano le parti.
La crisi economica, tuttavia, ha falsificato quel paradigma. Le promesse fatte non sono state mantenute e perseverare nel rispetto di quei principi sta peggiorando ulteriormente le cose. Il che significa che ci stiamo strangolando con le nostre stesse mani.
Perchè accade ciò? E’ probabile (o quanto meno non lo si può escludere a priori) che ci sia un piano per mettere le mani, attraverso le privatizzazioni, sulle industrie pubbliche, sui servizi pubblici (istruzione, sanità, pensioni) e sugli strumenti che consentono di continuare ad imporre alle opinioni pubbliche i principi neoliberisti, strumenti utili cioè a persuadere l’ustionato di cui sopra a continuare fiducioso nella cura di impacchi di olio bollente, come ad esempio la privatizzazione della Rai o l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti. In altre parole, questo piano punterebbe allo stravolgimento del modello dell’economia sociale di mercato.
E’ probabile. Non lo si può escludere. Ma visto che mi sono sempre sentito a disagio con i complotti, non ci voglio credere. Almeno per ora.
Però la domanda resta, perchè continuare diabolicamente a perseverare? La risposta è di tipo sociologico-fisolofico. Quando un paradigma diventa dominante, esso smette di essere una tra le tante interpretazioni della realtà per trasformarsi nella realtà stessa: l’interpretazione neoclassica dell’economia diventa l’economia da insegnarsi nelle università; l’idea che il privato faccia bene ed il pubblico faccia disastri è qualcosa di più di un dogma, diventa la realtà stessa; prima che scoppiasse la crisi nessuna provava, non dico indignazione, ma neppure disagio nei confronti dei compensi stellari di manager e banchieri: essi anzi erano (e per certi versi continuano ancora ad esser percepiti così) i pionieri di un modo nuovo, gli illuminati, degni della più viva ammirazione, che avrebbero spalancato per tutti le porte di nuove ere di progresso (come sosteneva nel 1960 Hayek). Una ammirazione così forte da sconfinare nella venerazione: sto pensando ovviamente a Berlusconi, ma anche a Steve Jobs.
Eppure sempre e solo di idee si tratta, non della realtà, e non si tratta neppure di idee che si rifanno a immutabili leggi della natura: nonostante tutti i tentativi di imporre il linguaggio della matematica all’economia, questa continua ad essere una “semplice” scienza sociale, non foss’altro perchè continua ad avere a che fare con quella strana materia che sono le aspettative collettive. Idee però che sono diventate leggi e trattati, acquisendo così la forza di imporsi a tutti. Idee, tuttavia che possono essere contestate, criticate o capovolte.
Giusto per fare qualche esempio. Non c’è nessuna legge della fisica che contempli l’indipendenza delle Banche centrali. Nulla vieta (se non il trattato istitutivo della BCE), che queste possano stampare soldi e prestarli ai governi nazionali ad un interesse dell’1% (così come si fa con le banche), perchè questi possano avviare politiche keynesiane di sostegno alla domanda. Il divorzio tra la Banca d’Italia e il Ministero del Tesoro, in Italia, fu una scelta politica, voluta da Andreatta; in Inghilterra fu Blair a sancirne l’indipendenza della Bank of England. Oppure: chi l’ha detto che tutte le banche debbono essere private? Se Enrico Cuccia non fosse stato così solerte nel promuovere la privatizzazione di Mediobanca, ora avremmo almeno uno strumento concreto per far giungere il credito alle imprese e non soltanto le sacrosante, ma temo inutili, parole del presidente Giorgio Napolitano. Dunque, per modificare le leggi e i trattati, con i quali ci stiamo strangolando con le nostre stesse mani, bisogna far mutare il paradigma dominante. Ma, si sa, la conquista dell’egemonia culturale (in senso gramsciano) è cosa lenta, difficile, costosa e lunga. E, come è noto, nel lungo periodo saremo tutti morti. Come fare allora per allontanare la cappa soffocante del paradigma neoliberista e porre fine alle politiche di austerity?
Una soluzione forse c’è. I principi del modello europeo (l’economia sociale di mercato o il Beveridge-Keynes consensus) sono stati depositati, in maniera più o meno esplicita, all’interno delle Costituzioni dei paesi europei. Quella italiana è la più chiara e strutturata. Tuttavia appigli si possono trovare anche in quella francese (in particolare nel Preambolo del 1946) e in quella tedesca. Ora, alla luce dei dati drammatici dell’economia, si potrebbe provare a dimostrare che alcuni dei principi (a matrice neoliberista), che sono stati inseriti nei trattati europei, sono incompatibili con i principi espressi nelle Costituzioni nazionali. Il che significa che si può imporre una modifica dei trattati, dei patti e delle norme interne che li recepiscono, decretandone l’incostituzionalità. Non sarà certo facile, ma potrebbe essere la via più semplice per non morire soffocati.
Nunziante Mastrolia
Sottoscrivo
sottoscrivo anch’io — rimane il fatto, però, che prima o poi dovremo anche discutere di COME si genera nuova ricchezza. a mio avviso, lo Stato — oggi, purtroppo, screditato — dovrebbe tornare al centro degli investimenti produttivi (es: energia verde).