La soluzione è la Costituzione

costituzioneIn una pubblicazione del 2009 Jacques Attali scriveva: “la crisi finanziaria, diventata economica, si trasforma in un’enorme crisi sociale e politica”. Dunque, la causa causarum della crisi è da individuarsi nelle follie del mondo finanziario, che hanno prodotto una crisi economica, la quale ha generato una crisi sociale e poi politica. Ebbene io credo che l’analisi di Attali vada capovolta. E’ stata l’applicazione di un’idea politica che ha prodotto una crisi sociale, che a suo volta ha generato una crisi economica, il cui epifenomeno è la crisi della finanza. La matrice è dunque politica, e va rintracciata nel paradigma neoliberista. Attenzione però, non si tratta solo di una riedizione del vecchio laissez-faire. Al mito dell’infallibilità dei mercati è necessario, infatti, aggiungere un altro assioma, elaborato da Hayek, e cioè che più una società e sperequata più essa è in grado di generare progresso. Per usare un’immagine: è il modo di procedere del bruco, con una testa che avanza, mentre la coda resta indietro; la testa poi si ferma e il resto del corpo avanza a sua volta. Pare che Hayek immaginasse così lo sviluppo della sua Società libera. Il che implica che: è necessario che la politica intervenga per sperequare la società; sono i ricchi il motore del progresso; perchè questi possano assolvere alla loro missione storica è necessario prevedere per loro un regime fiscale di favore; i soldi non prelevati dal fisco dalle tasche dei ricchi saranno investiti in nuove attività produttive, che genereranno nuova ricchezza, nuovi posti di lavoro e quindi nuovi salari; la ricchezza così sgocciolerà verso il basso, e la coda della società si riunirà alla testa dei pionieri. Il punto è che una volta sperequata la società, le disuguaglianze invece di diminuire con il tempo sono aumentate. Una pattuglia di pochi si è arricchita a dismisura, a fronte di una maggioranza che è scivolata verso il basso. Il convoglio non ha seguito la locomotiva. Il bruco è morto: si è strappato. In altre parole, senza correttivi politico-sociali, il mercato ha generato naturalmente una questione sociale.

Che cos’è una questione sociale? E’ un fenomeno caratterizzato dalla compresenza di almeno questi due elementi: la polarizzazione economica (misurata dall’indice di Gini); e la polarizzazione sociale, che è il frutto della occlusione o privatizzazione dei canali di ascesa sociale (la scuola pubblica) e di assistenza sociale (sanità e pensioni pubbliche). Che significa? Significa che se qualcuno diventa povero, rimane povero. Le vie di un riscatto sociale attraverso l’istruzione sono sbarrate: le scuole e le università, che assicurano una qualche speranza di mobilità sociale verso l’alto, sono private, quindi a pagamento, quindi aperte solo ai figli dei proprietari della locomotiva. Piove sul bagnato. Le repubbliche si trasformano in aristocrazie. Non solo. Se oltre a diventar povero, si ha la sfortuna di ammalarsi, si rischia di morire, perchè i medici (in assenza di una sanità pubblica) costano e così le cure e le medicine. E se, mettiamo per ipotesi, il nostro amico neo-povero fosse vittima di un sopruso? Anche gli avvocati bravi costano. Questa questione sociale ha generato una crisi economica: calo della domanda, cui si è fatto fronte con il credito facile, il denaro a buon prezzo e la fede nel mercato. Il risultato? L’indebitamento delle famiglie, esploso poi nella crisi dei subprime. Quel paradigma, applicato praticamente ad ogni latitudine sia dalle destre che dalle sinistre, non ha mantenuto le sue promesse (maggiori ricchezze e maggior progresso per tutti) ed il suo fallimento è certificato dalla crisi stessa.

Per uscire dalla crisi, dunque, serve un nuovo paradigma. Cosa non facile. L’elaborazione teorica di un tale paradigma in sé e per sé, potrebbe esser anche semplice; il difficile è lavorare perché questo paradigma possa diventare dominante. I tempi potrebbero essere lunghissimi. Tuttavia, noi, in Italia, questo problema non ce l’abbiamo, dato che i nostri padri fondatori ci hanno dato la soluzione: la Costituzione della Repubblica. Il ragionamento è il seguente: il mercato lasciato a se stesso produce naturalmente una questione sociale. Una questione sociale, se non risolta genera naturalmente la tirannide, forte del consenso delle masse dei diseredati, vittime del mercato. Il che significa che per impedire l’avvento del tiranno, non è solo necessario costruire i valli, i fossati e le mura previste dal piano di difesa elaborato nei secoli dalla tradizione liberale (separazione dei poteri, nomocrazia, rigidità della costituzione e tutto il rosario delle libertà liberali etc), è necessario anche che non si produca una questione sociale, che possa sospingere, spronare ed incitare l’aspirante tiranno ad impadronirsi del potere assoluto. Ebbene, nella nostra Costituzione è presente questo doppio piano di difesa: quello liberale e quello che potremmo definire socialista.

E non è solo il fatto che la nostra è una Repubblica fondata sul lavoro (e non sulla rendita) il che è già un programma. L’articolo 3: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale” e, in forza di ciò, “sono eguali davanti alla legge”, non c’è principe del foro che tenga. E poi un comma che è un capolavoro: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Che significa? Tra le tante altre cose, significa che è compito quotidiano della Repubblica neutralizzare gli effetti deleteri del mercato (la polarizzazione economica e sociale di cui sopra) e vigilare costantemente per prevenire il sorgere di una nuova questione sociale, impedendo che il cittadino, che è sovrano de jure nelle pagine della Costituzione, si trasformi de facto in un servo. Il che significa anche la costituzionalizzazione del principio per il quale senza giustizia sociale non vi può essere libertà. Ecco perché la nostra costituzione si apre con la parola lavoro e non libertà: senza lavoro, senza la certezza di una indipendenza economica, frutto della propria opera, non vi può essere libertà.

L’articolo 36 costituzionalizza il seguente principio: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. En passant, se si fosse rispettato quest’articolo nessuno avrebbe avuto il problema di arrivare dignitosamente a fine mese e mai avrebbe dovuto fare la sua comparsa il fenomeno dei working poors. Quelle tre parole “un’esistenza libera e dignitosa”, valgono quanto biblioteche di trattati. Perchè? Perchè se quel principio non viene garantito la Repubblica rischia di morire. Un cittadino che ha fame è disposto a vendere il proprio voto e, in casi estremi, a prestare il proprio braccio a chiunque gli prometta il pane, fosse anche per rovesciare tutto l’ordinamento costituzionale. In altre parole, la fame spinge il cittadino a cedere volontariamente i propri diritti, trasformandosi così in un suddito, o peggio, in un servo.

L’articolo 32: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. Ogni commento è superfluo, basti solo far notare che quello alla salute è riconosciuto come un diritto fondamentale, come la libertà di parola e di stampa. Chi tollererebbe che tali diritti subissero delle limitazioni, mettiamo in tempi di minacce alla sicurezza nazionale? Voglio sperare nessuno. Perchè allora tollerare che in tempi di difficoltà economica, in nome dell’austerity, il diritto alla salute, a causa dei tagli alla sanità, rischi di essere compromesso?

L’art. 33 si preoccupa della questione della mobilità sociale e cioè la scuola: “La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”. E’, dunque, la Repubblica che garantisce che l’ascensore sociale funzioni, per tutti. Ed infatti l’art. 34, sancisce che: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Non c’è Ivy League che tenga.

Ritornando alle questioni del lavoro, l’art. 38 costituzionalizza il principio secondo il quale i cittadini italiani “hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”. In verità, l’art. 38 parla di lavoratori, non di cittadini. Tuttavia, se l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, allora vuol dire che il cittadino non può che essere un lavoratore, o un aspirante tale, di conseguenza si può sostenere che vi è identità tra il concetto di lavoratore ed il concetto di cittadino. Il che implica che è compito della Repubblica garantire un’esistenza libera e dignitosa ad ogni cittadino italiano, che, a causa di infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia e disoccupazione involontaria, non sia in grado di farlo da sé.

L’art. 39: “L’organizzazione sindacale è libera”. Altro che moderazione sindacale, altro che divieto di interferire nelle sacre leggi del mercato. I sindacati devono interferire, devono disturbare le regole del mercato, tutelando i diritti e i salari dei cittadini, e devono intervenire per tentare di acquisire l’obiettivo della piena occupazione. Probabilmente non è eccessivo sostenere che con questo articolo si costituzionalizza il principio per il quale il lavoro non è una merce come tutte le altre.

L’art. 41 si apre con un principio che dovrebbe mettere a tacere ogni vagheggiamento di fuoriuscita o di superamento del mercato e del capitalismo: “L’iniziativa economica privata è libera”. E’ un principio costituzionale. Tuttavia, come aveva chiaramente intuito Marx, dato che il mercato risponde a sue ferree leggi (la necessità di ottenere un profitto a fronte di una serrata concorrenza da parte di altri operatori economici), c’è il rischio che queste ferree leggi del mercato mortifichino o calpestino alcuni diritti costituzionalmente garantiti. Di qui la precisazione: l’iniziativa economica “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.

Sin qui si è detto della produzione della ricchezza (art. 41) e della redistribuzione della ricchezza per creare le condizioni per il benessere dei più (art.3). Manca l’altro fondamentale strumento che la politica possiede per plasmare la società: le tasse. L’art. 53 costituzionalizza il principio della tassazione progressiva (principio che per Hayek è poco meno di un furto): “Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Non si scappa: chi voglia introdurre un principio di tassazione proporzionale dovrebbe mettere mano ad un riforma costituzionale.

Questo solo per citare i punti più significativi necessari però a mettere in evidenza una cosa. Se si legge la Costituzione, tenendo presente la definizione di questione sociale che si è data in precedenza, appare evidente come gli articoli citati siano l’argine che i padri costituenti avevano eretto perché gli italiani non vivessero mai più i drammi prodotti da quella questione sociale, che naturalmente viene generata dal mercato. In altre parole, i nostri padri fondatori hanno posto in Costituzione l’obbligo di prevenire il sorgere di una questione sociale. Il che, per inciso, significa, che i precetti neoliberisti, in Italia, mai avrebbero dovuto trovare ospitalità in quanto incostituzionali.

Per uscire dalla crisi, dunque, è necessario dare piena attuazione ai principi scolpiti nella Costituzione, traducendoli in programmi di governo, e lavorare perché quei principi pervadano anche l’Europa. Dalla crisi non possiamo, infatti, uscire da soli.

E’ vero che un tale programma può sembrare più nelle corde delle sinistre. E sarebbe quanto mai opportuno che questo schieramento politico ponesse fine alla guerra che per decenni lo ha dilaniato (guerra da cui deriva una grossa parte dell’anomalia di questo paese) e trovasse un punto di unità intorno a questo “programma costituzionale”. Tuttavia non solo la Costituzione è patrimonio di tutti, ma essa è vincolante per tutti. E’ vincolante giuridicamente in quanto legge fondamentale, ed è vincolante politicamente, perché quel programma è necessario al perseguimento del benessere dei più (obiettivo che è il senso primo del fare politica) e perché un paese, in cui la maggior parte dei cittadini sta male, o arranca, non è solo un paese con il fiato corto e il futuro grigio, ma è anche posto nel quale neppure i ricchi, alla lunga, possono stare bene.

Nunziante Mastrolia

fondazione nenni

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