A Kolyma il peggio

Allora è vero: ci sono libri che una volta letti hanno il potere di far cambiare di colpo la propria posizione rispetto al mondo. Dice Luigi Fenizi: “Lessi I racconti di Kolyma di Varlam Thiconovic Salamov in due giorni: ero filocomunista quando lo iniziai, ero anticomunista quando lo terminai”.
E prosegue: “Ci sono libri che non parlano, gridano. Dalla loro lettura non si esce indenni.” La lettura di quest’autore, testimone di se stesso come eroe del mondo da sottosuolo, da sottomondo del gulag, porta il lettore addirittura anche più in là della considerazione sulle causalità che hanno portato il comunismo alle sue conclusioni fallimentari, nei modi, nei tempi, nei fini con i quali, invece, intendeva realizzarsi.
Il libro di Fenizi va anche più in là del solo risultato del progetto politico del comunismo, per attingere anche le causalità che stanno alla radice della produzione del male, che sembra essere alimentato addirittura dalla natura stessa dell’umano. In questo senso la lettura del fenomeno storico raccontato e rappresentato da Salamov, oltre che politico presenta un risvolto anche dostoievskiano. Peraltro Fenizi, essendo un noto camusiano non può non essere anche dostoievskiano. I suoi scritti, infatti, lo dimostrano.
Tema centrale, quello della dannazione umana, non tanto e non soltanto come condizione teologica, quanto come condizione storica concreta. Qui la dannazione riveste le connotazioni generate dall’universo concentrazionario del gulag: una questione storica concreta. Tutt’altro che metafisica.
La Kalyma è un fiume della Russia siberiana nordorientale, tributario del Mare della Siberia Orientale, che sviluppa il suo corso per 2129 chilometri e che vanta ben diciassette affluenti di destra e di sinistra, mentre scorre in una terra immensa nel cui sottosuolo giacciono il carbone e l’oro, in abbondanza. Chi vi è mandato là, dai tempi degli zar ai tempi di Stalin vi è mandato per lavorare forzatamente all’estrazione d’entrambi, come, infatti, fu per Varlam Thiconovic Salamon, nato nel 1907 e morto nel 1982, di professione poeta e politicamente comunista, però trozkista e anche altro. Questo essere anche altro, oltre che trozkista, fu l’aggravante che si aggiunse a un’aggravante.
Essere altro, trozkista e poeta furono, infatti, le sue tre aggravanti. Le prime due si capiscono subito: la terza, quella di poeta, esige una spiegazione in più.
I poeti sarebbero quegli esseri umani i quali, per convenzione si occupano del cielo e delle sue nuvole, dei fiori, delle foreste e dei passeri: solitari se si tratta di poeti leopardiani e a stormi se si tratta di poeta lautreamontiani. Niente di più neutrale al mondo di costoro, quindi, si direbbe.
Si direbbe, pertanto che i poeti, di per sé, sono, sarebbero o dovrebbero essere gli individui più innocui, i più disarmati, i più elusivi rispetto alle forze e alle diatribe in contesa per le questioni del potere come potere, quindi i soggetti meno pericolosi dal punto di vista dei dispositivi di sorveglianza, di controllo e di sospetto, che sono propri degli ordinamenti politici di tutti i tempi, tirannici o no che siano.
Dovrebbe essere così, ma, in realtà, non è per niente così. La sua ragione c’è. Ed è una ragione oggettiva e profonda, che le polizie di tutti i tempi e di tutti i regimi conoscono assai bene. I pennini dei poeti sono sottili e le linee da essi tracciate sono certamente esili e delicate, estremamente sensitive, anche troppo, ma è appunto per questo che le loro tracce sono sismograficamente le più adatte a rilevare lo stato reale della realtà come realtà governata dai governanti reali.
Hanno un eccellente fiuto letterario le polizie e le censure soprattutto dei regimi, il cui concetto d’ordine del reale è di preferenza quello dell’ordine chiuso: dietro le innocenze e le svagatezze liriche dei poeti, i censori delle polizie ideologiche, da veri conoscitori dei meccanismi della letteratura non si fermano ai liberi giochi dei significanti. Dietro ai formalismi dei testi, essi corrono subito agli esiti impliciti nei significati, i contenuti, anche quelli non detti, anche quelli inconsci.
Verrebbe da dire che i poliziotti, in quanto critici letterari, ne sanno di letteratura anche più dei poeti, per quanto riguarda la questione dei contenuti di cui sono portatori, magari senza saperlo. I poeti, essendo degli ispirati, possono non sapere di che cosa dicono, ma i poliziotti sì che lo sanno. E sanno che in genere quei contenuti, magari ignorati dai poeti che li pronunciano, per lo più sono contenuti eretici.
Nel Dottor Zivago c’è l’episodio del gerarca comunista poliziotto, fratellastro di Zivago, per fortuna, sia pure provvisoria, per Zivago, il quale gerarca fa questa riflessione, tutta oggettiva: “Sì, egli aderisce alla linea del partito, ma per ragioni sottili come lo sono le ragioni che reggono i suoi versi: troppo sottili, per cui c’è da tremare solo a pensarle.”
Una riflessione perfetta. Il risultato può essere il seguente, come si evince dalle pagine stesse di Salamov, il quale “inquadra le condizioni climatiche nella nebbia bianca invernale della Kolyma, le cui temperature sono misurate dai vecchi detenuti anche senza termometro:
“Se c’è una nebbia gelata, fuori fa meno quaranta; se l’aria esce con rumore del naso, ma non si fa ancora fatica a respirare, vuol dire che siamo a meno quarantacinque; se la respirazione è rumorosa e si avverte affanno, allora siamo a meno cinquanta. Sotto i meno cinquantacinque, lo sputo gela in volo.”
“Il pericolo e il tormento non è dato solo dalle condizioni detentive imposte dal sistema, ma soprattutto dall’azione violenta e criminosa all’interno del campo dei blatnye, i malavitosi (ossia i criminali comuni), tollerata dalle autorità; essi la esercitano sui detenuti politici, che hanno soprannominato fraery, cioè ‘fessi’, per la loro inevitabile passività di fronte alle loro umilianti prepotenze (che potevano anche arrivare a ferimenti, torture e all’omicidio di chi non accettava la loro zakon, la legge non scritta).”
E’ rimasto un detto in Russia, dai tempi degli zar: “A Kolyma era peggio.” Campo concentrazionario stimato statisticamente in tre milioni di morti.
Ma di là della statistica, l’idea complessiva sulla complessità e totalità del fenomeno emerge direttamente dalle pagine del libro di Fenizi, di cui leggo alle pagine 88 e 89, il seguente squarcio:
“La perdita della moralità va di pari passo con la perdita della forza. Il campo di concentramento è del resto il trionfo della forza fisica come categoria morale, sebbene il lavoro fisico forzato sia il peggiore insulto che si possa fare all’uomo. Di norma la forza di un contadino è maggiore di quella di un intellettuale, il quale è circondato da un pericolo doppio, triplo. L’intellettuale non ha compagni con i quali solidarizzare per riscattare il proprio destino: tutti si comportano con lui da malavitosi, pur di scamparla. Il contadino, è sicuro, morirà anche lui, ma dopo l’intellettuale. Quanto ai criminali, sono per costituzione fuori da ogni legge morale. La loro forza è la corruzione di tutti, con ogni mezzo. Feccia subumana e assassina, spaventosi a vedersi, rappresentano l’ingiustizia nell’ingiustizia: le loro baracche erano ben riscaldate, la loro razione più abbondante, il loro lavoro più leggero.
I reietti, gli ultimi tra gli ultimi, erano i trockisti, veri o presunti. Per loro non valevano sconti di pena per le giornate lavorate né altri benefici. Doveva essere chiaro a tutti l’esito dello scontro politico: chi doveva vivere e chi doveva morire. Chi sentiva prossima la morte cercava ogni possibile via d’uscita, magari passando dalla parte dei capi. Per non cadere nell’abiezione c’era una sola cosa da fare: rifiutarsi di coartare l’altrui volontà.
Varlam Tichonovic Salamon non volle mai fare il caposquadra per questo motivo; perché nei campi di lavoro forzato il caposquadra era l’entità fisica della quale lo Stato si serviva per uccidere i propri nemici.”
Alcune date, alcuni dati. Un primo arresto nel 1929 con condanna a tre anni di lavori forzati a Visera sugli Urali settentrionali: rilasciato nel ’31. L’arresto successivo durante l’anno delle grandi purghe, 1937, e condanna ai lavori forzati per cinque anni nella Kalyma, dove nel 1943 gli è comminata un’altra condanna per altri dieci anni. Nel 1951, dopo diciassette anni di Kalyma, è rilasciato, ma la sua famiglia non esiste più: la moglie se n’è andata e la figlia, ormai adulta, si rifiuta di riconoscerlo. Riabilitato nel 1956, ritorna a Mosca nel 1957, ma ormai è un invalido permanente e tale resterà tra malattie e stenti fino al 1982, l’anno della sua morte.
La riabilitazione, tuttavia, non costituisce risarcimento: la riabilitazione è un condono di pena, ma non costituisce reintegrazione. Anche a stalinismo nominalmente superato, o proclamato superato, chi è stato condannato politicamente durante quel periodo, rimane anche dopo la riabilitazione formale allo stadio di colpevolezza reale, in qualità di “colpevole d’innocenza” (come dice, infatti, lo stesso Fenizi con il sottotitolo del suo libro).
Chi è stato colpito a torto, vivrà per sempre nella condizione di perduto ancora più che se fosse stato colpevole. Guai al redivivo, il quale, potendo raccontare, si rende pericoloso. Il dramma del dramma del sopravissuto di questo tipo, è proprio questo. Ed è questo uno dei punti principali sui quali il libro di Fenizi, che in realtà costituisce la più ponderosa biografia di Varlam Salamov, perché ne racconta e ne analizza tutta la vita, si diffonde e insiste.
Pertanto il libro di Fenizi vale come se fosse il romanzo che descrive la realtà di un’epoca attraverso la vita di un suo personaggio che ne rappresenta simbolicamente l’essenzialità: ne rivela un dato di verità. Peraltro, scrivere come attività di rivelazione e testimonianza dell’”orrore” e della “verità”, era lo scopo che Salamom prescriveva a se stesso come autore, preoccupato, anzi, di scrivere un libro di verità senza però risolverlo e ridurlo a mero “oggetto d’arte”.
Per Salamov, lo scrivere costituiva, infatti, un impegno morale che deve andare di là del fine che si attribuisce per tradizione a un’opera d’arte. Fenizi, il suo biografo, in qualche modo si sente mosso dallo stesso intento e con lo stesso criterio.
Certo, il suo è un libro scritto con vera penna da scrittore: una penna intinta nell’inchiostro della letteratura, per intenzione e riuscita di stile (come in tutti i suoi altri libri, peraltro), però anch’egli, come Salamov, ha inteso scrivere questo suo libro, il cui contenuto di senso storico-politico è evidente (e non lo nasconde), non tanto per fare della storiografia o della sovietologia, quanto, soprattutto, per far emergere una riflessione d’ordine etico e d’ordine umano, in senso superiore, come per altro voleva e intendeva fare il suo personaggio, Varlam Thiconovic Salamov, sia come uomo, sia come scrittore.

LUIGI FENIZI, Varlam Salamov. Storia di un colpevole d’innocenza, Scienze e Lettere, Roma 2012, pp. 264, € 20,00

Cesare Milanese

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