Secondo Tomàš Sedlàček — autore del libro L’economia del bene e del male – l’attuale Grande depressione ha evidenziato che nelle società opulente circola un virus dalle conseguenze potenzialmente devastanti. Questo virus , già individuato dalla civiltà greca, ha un nome preciso: hybris . Vale a dire : assenza del limite o, più precisamente, tracotante rifiuto del principio di realtà.
Eppure – osserva Sedlàček – non occorreva grande sapienza per percepire l’irrazionalità del modello di sviluppo adottato dalle società industriali avanzate. Dal momento che l’economia procede per cicli sino dalla notte dei tempi , sarebbe stata cosa agevole prevedere che alla spettacolare crescita della ricchezza durante i primi anni del secolo sarebbe succeduta una depressione. E sarebbe stata altresì cosa saggia accumulare un consistente surplus di bilancio. E, invece, è accaduto tutto il contrario . E’ accaduto che buona parte delle nazioni dell’Occidente hanno consumato molto di più di quello che producevano. Risultato inevitabile : la crescita ipertrofica del debito pubblico e, conseguentemente, la crisi nella quale oggi si dibatte l’economia globale .
Una crisi che poteva essere evitata tenendo presente la storia di Giuseppe e del Faraone così come essa è raccontata nella Bibbia. Il consiglio formulato da Giuseppe , al quale era stato chiesto di interpretare il sogno che il Faraone aveva fatto, era di tipo keynesiano: accumulare surplus negli anni delle vacche grasse evitando di consumare tutto il raccolto e mettendolo da parte per gli anni delle vacche magre. Senonché ha prevalso quello che Sedlàček chiama il “keynesismo bastardo”. Solo una parte della teoria elaborata da Keynes è stata accolta ( quella che consente di ricorrere al debito pubblico), ma è stata sistematicamente ignorata l’altra ( quella che suggerisce di accumulare surplus di bilancio).
Stando così le cose, è imperativo instaurare una nuova regola fiscale – la “regola di Giuseppe” – basata sull’idea che la crescita del Pil più il deficit del bilancio complessivo non devono superare il 3 % del Pil stesso. Il che significa che se un’economia cresce del 6 %, deve avere un surplus pari al 3 % ; e se un’economia registra una flessione del 3 % , può essere consentito un debito massimo pari al 6 % del Pil . Pertanto, i debiti andrebbero ammessi durante gli anni delle vacche magre , ma solo a patto che siano compensati durante gli anni delle vacche grasse. Per contro – questa è l’amara conclusione cui perviene Sedlàček — , “abbiamo accumulato ricchezze inimmaginabili nel corso dell’ultimo periodo di crescita durato dal 2002 al 2008 ( sette anni , ahinoi !) , eppure abbiamo messo da parte poco o nulla per riparare i vecchi debiti o per accumulare un margine in vista di tempi peggiori”. Non solo. E’ accaduto che molti Paesi – fra i quali il nostro – hanno generato spensieratamente ulteriore debito ! E lo hanno fatto irresponsabilmente dimenticando la “regola di Giuseppe”.
Luciano Pellicani
Mi sembra che ‘La regola di Giuseppe’ sarebbe soprattutto una regola di buon senso, virtù che però non va per la maggiore.
Aggiungo due considerazioni che mi piacerebbe fossero oggetto di risposta perché io da solo non ne trovo.
La prima è che si parla di questo gigantesco debito globale e le statistiche ci dicono pressoché al centesimo chi sono i debitori, ma nessuno ci parla mai dei creditori. Mi spiego: se io, Caio, ho un debito c’è un Tizio che ha un credito. Dunque chi sì è arricchito in questi ultimi decenni? Dove tiene i suoi – qualche volta bottino – risparmi ? Paga le tasse e a chi?
Seconda questione. Siamo sicuri che sia corretto continuare a dannarsi l’anima per ripianare i nostri debiti seguendo la ‘retta via’ che ci indica la Merkel? O piuttosto non sarebbe più sensato seguire le indicazioni delle amministrazioni Usa (soprattutto quelle che hanno preceduto l’attuale) e continuare a stampare moneta) cosa che molti vorrebbero facesse anche la BCE) continuando così a cumulare debiti su debiti?
In fin dei conti una cosa ci è oggi estremamente chiara: i debiti sono tutti dei poveri (con diverse gradazioni di povertà, naturalmente) e se si riducono alle condizioni di proletari, che altro può accadergli?
Insomma i poveri non possono fallire, i ricchi sì. Allora forse conviene puntare le carte su un grande fallimento collettivo, globale, con un bel concordato finale tra debitori e creditori: vi dovevamo 100? Accontentavi di 10!
Certo se lo fa solo un Paese (l’Argentina ieri e la Grecia domani) sono dolori soprattutto per il debitore, ma se lo fanno gli Usa, il Giappone e l’Europa? A noi poveri che danno ce ne potrà mai venire? Ma, forse, anche a me difetta il ‘buon senso’.
Carlo Correr