La vittoria della socialdemocrazia

Piero Craveri, recensendo la Storia del comunismo internazionale di Silvio Pons (Domenicale, Sole 24 ore, 3 giugno 2012), ricorda perché il comunismo fu sconfitto dall’occidente capitalistico. Il nostro sistema economico-sociale era imbattibile. Craveri, giustamente, sottolinea il ruolo della politica: gli USA attuarono politiche multilaterali e flessibili. Gli USA seppero esercitare con intelligenza la loro egemonia, che fu in primis politico-culturale. Garantirono autonomia istituzionale, politica ed economica ai loro alleati. Così assicurarono dinamismo e crescita, in un clima di libertà, a tutto l’Occidente. Nulla da eccepire. Solo un’osservazione: la guerra fredda non l’ha vinta il capitalismo selvaggio, ‘’nudo e crudo’’, propugnato dai liberisti. Ha trionfato un sistema incivilito da due straordinarie rivoluzioni, il new deal rooselveltiano e la social-democrazia europea, la cui forza propulsiva non s’è esaurita. Né va dimenticato il piano Marshall, che innescò un lungo boom economico. Truman, nel 1947, riconobbe che “il germe del totalitarismo è alimentato dalla sofferenza e dalla miseria”.

Il capitalismo delle origini non avrebbe vinto così clamorosamente contro il comunismo se non fosse stato riformato dall’interno. Se le condizioni di vita, in Occidente, fossero rimaste quelle, abominevoli, osservate da Marx prima e da Gramsci poi, una nutrita schiera di intellettuali avrebbe continuato a farsi irretire dalle sirene del comunismo. E se negli USA, all’epoca della Grande Depressione, non fossero state realizzate politiche keynesiane, chissà che anche gli americani, pur liberali per inclinazione, non si sarebbero radicalizzati. Certo, quella americana era un’economia gigantesca: una miriade di fabbriche tecnologicamente all’avanguardia; agricoltura meccanizzata; natura generosa: terra per tutti, materie prime in abbondanza. Gli USA, durante le due guerre mondiali, dimostrarono un’eccezionale – quasi miracolosa – capacità produttiva. La civiltà dei consumi (degenerata, purtroppo, nel consumismo sfrenato) la dobbiamo agli americani.

Ma l’abbondanza è davvero il frutto del capitalismo sic et simpliciter? Il miracolo economico post-bellico fu propiziato da un terreno il più fertile: la libertà politica. Senza la democrazia liberale e l’azione della sinistra riformista, che ha stabilizzato gli scossoni del capitalismo, non ci sarebbe mai stato quello sviluppo impetuoso in tutti gli ambiti e settori (l’URSS ottenne successi solo nell’industria pesante, soprattutto bellica).

Il fatto è che la leadership politica e l’establishment economico statunitense – che da sempre assorbivano valori liberal-democratici dal latte materno — capirono al volo la grande novità del XX secolo: il cittadino era, al tempo, stesso un elettore e un consumatore. Nei Paesi sotto il tallone comunista, i cittadini – se così li possiamo definire — non erano né l’una né l’altra cosa. La duplice natura del cittadino occidentale fece sì che le élites fossero predisposte alle politiche keynesiane e al Welfare State. Le democrazie, infatti, si reggono sul consenso espresso nelle elezioni. Né il capitalismo più avanzato, temperato da leggi democratiche sul lavoro, può prosperare nell’indigenza. Altrimenti chi le compra le merci sofisticate, con alto valore aggiunto? Era finita, insomma, la fase ottocentesca del capitalismo colonialista che si espandeva vendendo, in un’Asia sottomessa, stoffe e manufatti di bassa qualità prodotti da una classe operaia proletarizzata.

Durante la guerra fredda, i popoli dell’Est europeo e gli stessi sovietici – con l’eccezione dei “puri e duri” – erano come bambini poveri, incollati a una vetrina stracolma di giocattoli. Visibili, quasi a portata di mano, ma destinati ai figli dei ricchi. Le notizie trapelavano, a dispetto della cortina di ferro e della censura. I popoli soggetti al comunismo, per quanto inebetiti dalla propaganda, intuivano che a Ovest non c’erano solo barboni senzatetto e disoccupati alla Charlie Chaplin. L’ingiustizia sociale c’era, i rimasugli di privilegio pure. Ma il benessere – nonostante le sacche di povertà – si era diffuso a macchia d’olio anche fra la classe lavoratrice. E chi, se non le sinistre democratiche aveva reso possibile questo stato di cose impensabile fino alla fine dell’Ottocento? La terza via social-democratica era – ed è tuttora – la più felice approssimazione a quel “socialismo dal volto umano” che i comunisti agognavano in un altrove lontano. Ma quell’altrove era qui, sotto i loro occhi.

Edoardo Crisafulli

fondazione nenni

Via Alberto Caroncini 19, Roma www.fondazionenenni.it

One thought on “La vittoria della socialdemocrazia

  1. Mah. Il comunismo sovietico è finito, il capitalismo direi non se la passa troppo bene (e le ragioni della sua “vittoria” sono in parte molto meno filosofiche di quelle descritte), ma anche la ripresa meccanica di modelli socialdemocratici magari con una loro validità negli anni settanta od ottanta ma anch’essi superati e sconfitti dagli sviluppi successivi non mi sembra molto proponibile.
    Diciamo piuttosto che al contrario del capitalismo dal volto più o meno umano, che mi pare avere ormai esaurito tutte le varianti possibili, l’ideale *socialista* conserva ancora la potenzialità di generare soluzioni nuove che non siano solo la ripetizione di quelle passate.

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