Il mio 25 aprile

-di EDOARDO CRISAFULLI-

La fine di una guerra atroce, dell’occupazione straniera, di una dittatura; la conquista del bene più prezioso: la libertà. Finalmente una nuova Italia, in pace. Un’Italia democratica e, grazie a Dio, anche Repubblicana. Ma quanto apprezziamo tutto ciò noi che siamo nati vent’anni dopo il 25 aprile 1945? Per la nostra generazione, il 25 aprile è stato soprattutto tanta, tantissima retorica. Certo, abbiamo il senso delle coordinate storiche — per le mie figlie, Mussolini è come Napoleone: un personaggio nei libri di storia, confuso con tanti altri nelle nebbie di un passato remoto. Il punto, però, è un altro: la libertà e la democrazia, per tutti noi nati nel dopoguerra, sono cose scontate, come l’ossigeno che respiriamo, come il piatto di pasta che troviamo ogni giorno a tavola. Ce le siamo trovate belle e pronte, e perché mai dovremmo pensarci più di tanto? Solo negli anni Settanta la democrazia parve vacillare. E, per un attimo, fummo come illuminati. Ma dimenticammo subito: eravamo troppo ragazzini per capire il rischio incombente. Mio padre, invece, negli “anni di piombo” aveva la faccia seria e tirata. Il mio unico canale di comunicazione col passato è stato proprio lui, mio padre, classe 1931. Aveva 12 anni quando i nazisti occuparono l’Italia. Viveva a Merano. Ne aveva 14 quando assistette a una fucilazione e intravide da lontano un’impiccagione. C’erano i pattugliamenti, c’era il coprifuoco serale. Ma quando, da bambino, gli chiedevo com’era la vita quotidiana in quel tempo mi diceva: “Non puoi capire. A parte la fame, quella vera (incubo di chi viveva in città), che tu non hai mai provato, si respirava un clima pesante, di una pesantezza indefinibile. L’atmosfera pareva intrisa di ansia, diffidenza, paura. Non potevi fidarti di nessuno. Solo chi ha vissuto in una dittatura o sotto occupazione può capire”. Io mi sforzavo di immaginare un mondo senza le mie granitiche certezze. In effetti non ci riuscivo. Avrei capito solo molti anni dopo. Alla fine degli anni Novanta ero a Gedda, in Arabia Saudita – regime islamista teocratico . Fu lì che cominciai a capire. Lavoravo all’Università: quale collega mi era sinceramente amico, chi riferiva (o era obbligato a riferire) ai servizi segreti? Mi sentivo impacciato, non ero a mio agio. “Non puoi fare questo, non puoi far quello. Non puoi dire questo e non puoi dire quello”. Fatto è che un timore indefinibile, un’oscura malattia dell’anima, mi accompagnò per tre anni. Aveva ragione mio padre: difficile spiegare cosa si prova a perdere la libertà, anche se solo per poco. Il caso ha voluto che io ripetessi quell’esperienza. Passato un decennio, sono tornato in Medio Oriente: Damasco, dove ho lavorato per 6 mesi, nel cuore della tumultuosa ‘Primavera araba’. Quello siriano è un regime. Laico (c’è libertà religiosa), ma pur sempre dittatoriale (non c’è libertà politica). Se non aspettavo visite, sussultavo ogni qualvolta suonavano alla porta di casa. Una notte mi svegliarono le guardie armate che pattugliavano la strada dove abitavo: dovevo spostare la macchina, parcheggiata di fronte a casa mia. Gentilissimi, per carità. Ma quello era un ordine da eseguire, e subito anche. E quella era casa mia. Finalmente afferrai il senso della stupenda definizione di Churchill, in classico stile anglosassone: “democrazia vuol dire che quando qualcuno suona il campanello della tua porta nelle prime ore del mattino, è molto probabile che si tratti dell’omino che ti porta il latte a domicilio”. Ecco cos’è una liberal-democrazia fondata su uno Stato costituzionale di diritto: il migliore dei mondi possibili. Un mondo sano e giusto nel quale, se sei onesto e in buona fede, non hai paura delle autorità. Certo, non è sempre così: nelle nostre carceri ci sono anche detenuti innocenti in attesa di giudizio. Ma noi avremo sempre la speranza di cambiare le cose in meglio. Il destino della polis democratica è nelle nostre mani, non in quelle di un tiranno. Un cittadino non è, e non sarà mai, un suddito. E già: grandissima e stupenda invenzione, la democrazia liberale. Così ho celebrato questo 25 aprile 2012: ho pensato che la libertà è come la salute: ti rendi conto di quanto sia importante solo quando non ce l’hai più.

 

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