La borsa crolla, lo spread vola, l’angoscia cresce. Sfogliare un qualsiasi giornale è ormai un’operazione che produce ansia e preoccupazione. Gli indici delle borse e dei differenziali tra i Bot dei vari paesi sono diventati il termometro per misurare l’apprensione collettiva, quasi una rappresentazione grafica delle angosce e delle paure di tanti.
Nel contempo, commentatori ed analisti avvertono: il futuro è fosco. I figli vivranno peggio dei loro padri. Aspettative decrescenti. Una lunga e insicura convalescenza. Cinghie strette e cibi insipidi. In altre parole – per dirla con Valery – “il futuro non è più quello di una volta”.
Questo è un processo estremamente pericoloso. Perchè al di là di una critica del mondo cattolico, che accusa i tempi moderni di uno sterile relativismo, gli altari delle nostre società aperte non sono vuoti o inutilmente sovraffollati.
Anche le società aperte hanno una fede, una fede laica nell’uomo o meglio la certezza che l’agire umano possa tendere al progresso e al miglioramento dell’esistente. La società aperta, pertanto, deve vivere come certezza la capacità che l’azione umana possa fare in modo che il domani sarà meglio di ieri: la fede nel progresso umano e quindi la fede nella capacità di poter «padroneggiare l’avvenire». E questo perché se la società chiusa è dominata dalla cogenza dell’eterno ieri, la società aperta è costantemente proiettata nel futuro: vive nell’ansia benefica del fare domani. Questo significa che sebbene la cogenza pubblica di un sacro trascendentale si è lentamente prosciugata fino a ridursi al foro interiore, non di meno, la società aperta per non trasformarsi in astratta o «atomica» ha bisogno di innalzare sugli altari della fede pubblica un nucleo di valori del tutto secolare ma vissuto in maniera del tutto sacra. Questo significa che con la scomparsa dell’assoluto religioso, la società ha dovuto ricostruire un altro assoluto, senza il quale non vi è possibilità di vita. Un assoluto immanente e laico: ciò che in Occidente è stato sacralizzato, infatti, con la morte di Dio è l’uomo stesso e la sua capacità di progredire.
Ma si badi, non si tratta della fede quasi mistica nell’uomo rinascimentale, misura del creato. Non è l’uomo con la U maiuscola. E’ anzi la fede che ciascun uomo ha in sé in quanto faber. E la fede nel progresso non è quella delle magnifiche sorti e progressive dell’Umaità, ma la fede concreta che ogni individuo deve avere di poter migliorare con il proprio impegno e il proprio lavoro la condizione materiale e spirituale sua e dei suoi cari.
In maniera del tutto laica, pertanto, in questo modo la società aperta assolve a uno dei bisogni essenziali per l’uomo che non ha più alle spalle la Tradizione della società chiusa: la necessità di guardare con speranza al futuro, la necessità dell’ottimismo: senza di esse tutto si illanguidisce e muore. E questo perché se l’uomo della società tradizionale sente la tradizione come una «vis a tergo», l’uomo della società aperta è costantemente inclinato, proiettato, quasi vive nel futuro.
Questo nucleo di valori vissuti come infalsificabili e certi è il collante della società aperta.
Ora se le aspettative di futuro (e non, si badi, necessariamente le condizioni reali) vengono tradite, la fede della società aperta vacilla: sono le emozioni, per dirla con Moïsi, e le rappresentazioni del futuro che esse generano, che contano. È la paura di aver perso il «controllo sul futuro», a livello individuale innanzitutto che produce angoscia e può far evaporare la fede nell’uomo e nel progresso.
Questo significa che la società aperta è come una trottola: finché gira vorticosamente (una continua Grande trasformazione) sta in equilibrio su un perno (la sua fede secolare), se smette di girare crolla.
Se la fede crolla la reazione può svolgersi lungo un continuum che ha ad un estremo il suicidio all’altro l’omicidio dell’esistente, individuato come la causa delle aspettative decrescenti: di qui i movimenti palingetico-rivoluzionari. E quanto più ampia e diffusa è la perdita della fede, tanto maggiore è il consenso a tali movimenti.
Il mix si fa esplosivo quando, gli eventi traumatici che producono questa evaporazione della fede, vengono dopo un lungo periodo di aspettative crescenti, generando così un drammatico scarto tra il futuro immaginato, le aspettative, e la realtà.
La prima guerra mondiale chiude la Belle Époque e produce, insieme con la crisi economica degli anni Venti, il consenso di massa dei totalitarismi, che tentarono comunque di ricreare un surrogato di fede, di riempire gli altari. Ci sono delle ragioni esistenziali alla base del consenso a questi movimenti che non vanno trascurate.
La crisi economica degli anni Settanta, chiudeva il trentennio glorioso di crescita economica post-bellica ed anche allora si produssero dei movimenti palingetico-rivoluzionari: le Brigate rosse ad esempio. Se il consenso non fu così ampio fu perchè lo Stato sociale assorbì il colpo non spalancando le porte alla disperazione.
Dopo i ruggenti anni Ottanta e Novanta, che hanno prodotto una ipertrofia di aspettative, come una mannaia arriva una nuova e possente crisi. C’è da sperare che la storia non abbia in serbo per noi un déjà vu.
Nunzio Mastrolia