A proposito del caso Cesare Battisti

È mancato qualcosa alla nostra cultura e alla nostra politica per trasmettere e far capire davvero il senso di ciò che accadde in quegli anni tormentosi del terrorismo. Non siamo riusciti a far comprendere, anche a Paesi amici, vicini e lontani, cosa hanno significato” (8 gennaio, 2011).

Con queste parole, Giorgio Napolitano commentava la notizia della mancata estradizione di Cesare Battisti (Sermoneta, 1954) di cui oggi si torna a parlare sulle pagine dei principali quotidiani nazionali. Condannato in contumacia all’ergastolo per avere commesso quattro omicidi in concorso durante gli anni di piombo, Battisti esce oggi dal carcere di Papuda: il Tribunale Federale di Brasilia ha respinto definitivamente il ricorso del governo italiano.

Condivisibili, dunque, le parole di Napolitano? Senz’altro, se sono riferite alla Francia, dove si è costituito un movimento di solidarietà per Battisti, in cui figurano anche i nomi di Daniel Pennac e Bernard-Henry Lévy.

Molto meno, credo, se riferite ad altri Paesi (gli Stati Uniti, per esempio) in cui l’immagine dell’Italia degli anni di piombo è meno semplicistica di quella che regna qui da noi. In molti “salotti” italiani (e francesi), morti, feriti e rapimenti furono il frutto di una gigantesca macchinazione dello Stato italiano ai danni di centinaia di giovani idealisti in lotta per liberare il nostro Paese dalla servitù imposta dal Capitale americano. Francesco Coco, Aldo Moro, Girolamo Tartaglione, Licio Giorgieri e tanti altri: tutta colpa della democrazia cristiana e dei servizi segreti americani che tramavano nell’ombra. Un film su tutti: “Piazza delle Cinque Lune”, dove il regista Renzo Martinelli indica in Mario Moretti un agente regolarmente stipendiato dalla CIA. Un libro su tutti: Sergio Flamigni, “La tela del ragno. Il delitto Moro”, che ha ispirato la trama di Martinelli (e molte altre).

Secondo alcuni intellettuali, che hanno avuto la capacità di influenzare l’opinione pubblica: “I brigatisti rossi furono quattro imbecilli, incolti e forse prezzolati” (“la Stampa”, 10 maggio 2008). Prezzolati da chi? Da chi li manovrava come marionette. Già, perché i brigatisti rossi – a detta di molti – non sarebbero mai esistiti. E, invece, negli anni Sessanta c’erano già tutte le premesse culturali del “dopo”, come ha ben documentato Danilo Breschi (“Sognando la rivoluzione”, Mauro Pagliai, 2007).

Nel maggio 2010, fui invitato a tenere una conferenza sul terrorismo italiano alla Johns Hopkins di Washington. Quando riportai l’interpretazione “complottista”, molti sorrisero compassionevoli. Un agente del governo americano, ormai in pensione, chiese la parola: “Ho lavorato in Italia tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta. Le Brigate rosse erano una cosa estremamente seria. Nessuno negli Stati Uniti le ha mai prese sotto gamba. Soltanto voi italiani le avete sottovalutate e continuate a farlo”. Più o meno, lo stesso discorso che mi fece Marc Sageman in occasione di un convegno internazionale sul terrorismo alla Brookings Institution. Se ne trova conferma nel suo libro “Understanding Terror Networks”, considerato un punto di riferimento (University of Pennsylvania Press, 2004).

Avrei potuto dargli torto?

Lo storico americano Richard Drake pubblicava nel 1989 un libro molto serio, mai tradotto da noi, in cui analizzava il terrorismo italiano all’interno di una precisa tradizione politico-culturale (“The Revolutionary Mystique and Terrorism in Contemporary Italy”, Indiana University). Ne pubblicò un secondo, altrettanto serio e documentato, sul caso Moro per i tipi di Harvard (“The Aldo Moro Murder Case”, 1995). Si presti attenzione: il film “Piazza delle Cinque Lune” arriva nel 2003, addirittura 14 anni dopo il libro di Drake. Mentre il lavoro di Agostino Giovagnoli – che affronta il caso Moro con il dovuto rigore storiografico – arriva soltanto nel 2005 (“Il caso Moro”, il Mulino).

E se fossimo noi ad essere in ritardo nella comprensione del terrorismo italiano?

Nei Paesi dell’America latina il fenomeno della “violenza rossa” non è considerato una “messa in scena”, come ancora accade da noi in molti ambienti colti. Mi viene in mente il recentissimo libro di una giovane studiosa, Valeria Rosato, “Conflitti camaleontici. Il conflitto colombiano tra il XX e il XXI secolo” (Franco Angeli, 2011), basato su documenti raccolti “in loco” e su un’ampia letteratura straniera. Valeria Rosato richiama la nostra attenzione sul continente che diede i natali ai Tupamaros (in cui le Brigate rosse videro un modello da imitare). Penso anche al libro di Hernando de Soto sul Perù di Sendero Luminoso, “Povertà e terrorismo” (Rubbettino, 2007). A quanto pare, il Brasile fa eccezione. Da quelle parti, sembra che le teorie cospirative abbiano fatto breccia.

Se il terrorismo è stato un’invenzione dello Stato italiano; se gli anni di piombo sono stati il frutto di una “mostruosa macchinazione” ordita da politici e magistrati; se la strage di Via Fani è stato opera della CIA e della democrazia cristiana; con quale credibilità il governo italiano e la magistratura potrebbero chiedere l’estradizione di Battisti?

I libri di Vladimiro Satta (“Il caso Moro e i suoi falsi misteri”, Rubbettino, 2006); di Marco Clementi (“Storia delle Brigate rosse”, Odradek, 2007); di Guido Panvini (“Ordine nero. Guerriglia rossa”, Einaudi, 2009) e di Angelo Ventrone, che ci lascia in attesa di una nuova pubblicazione sul nostro tema, inducono a sperare – almeno la speranza – che nei salotti francesi e in quelli italiani entrerà presto una ventata di buon senso storiografico.

Nel frattempo, Battisti ringrazia.

Alessandro Orsini

fondazione nenni

Via Alberto Caroncini 19, Roma www.fondazionenenni.it

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