La Costituzione va attuata, non stravolta

Personalmente, sosterrò volentieri qualsiasi componente politica che dichiari apertamente l’inutilità e la dannosità delle cosiddette “riforme costituzionali”: non intendo mettere in discussione in astratto la possibilità di riformare la Costituzione del 1948, ma l’opportunità di mettere mano alla Carta fondamentale in questo momento storico. Meglio sarebbe, invece, una riflessione su come attuare, attraverso lo strumento della legislazione ordinaria, i principi fondamentali che vennero enunciati dai padri costituenti e che, lungi dall’avere perso smalto, sono ancora in attesa di trovare attuazione. Se si guarda alle leggi più rilevanti prodotte negli ultimi anni e anche alla più rilevante riforma costituzionale, quella del Titolo V, sulle regioni, si stenta a ritrovare nelle singole disposizioni una traccia che riconduca a criteri direttivi ispirati a solidarietà e lavoro, decentramento ed autonomie, libertà ed eguaglianza. Al loro posto, la sgangherata traduzione istituzionale del liberismo più becero ha preso il nome di “federalismo fiscale”, mentre il lavoro, da fondamento della repubblica democratica, è tornato ad essere considerato una merce, il cui incremento viene subordinato al miglioramento delle condizioni dell’offerta, ovvero ad un peggioramento netto della qualità della vita per tutte le fasce di età, anche se i più colpiti rimangono i lavoratori giovani e le donne.

Fermiamoci un attimo a considerare questo punto: l’insopportabile ritornello del “bisogna dimenticare il posto fisso”, come se il desiderio di stabilità e di serenità per il futuro fosse una velleitaria pretesa di ragazzini viziati, si fondava su un’idea che nel tempo è diventata un enunciato tanto assiomatico quanto indimostrato, e cioè che il mercato del lavoro fosse una sorta di fortezza, il cui accesso era precluso ai “non garantiti” (alias, precari) da una nutrita schiera di “garantiti” (alias, lavoratori subordinati a tempo indeterminato) sindacalmente asserragliati all’interno e fermamente intenzionati a rigettare gli assedianti. Questa vulgata, assiduamente sostenuta non solo da destra, se presentava qualche contenuto di verità negli anni ’70-’80, andrebbe quanto meno verificata alla luce dell’attualità: allora, per proseguire sulla metafora militare, si scoprirebbe che gli assediati non sono più tanto garantiti (laddove garanzia significa soprattutto continuità del rapporto di lavoro, per non parlare di retribuzioni medie tra le più basse d’Europa) e soprattutto che l’assedio stesso non ha nessuna ragione d’essere, perché non è stato dimostrato il presupposto di tutto il ragionamento, per cui il ridimensionamento delle garanzie sul posto di lavoro (la sua stabilità, soprattutto) avrebbe spalancato le porte del mercato del lavoro a chi ne era fuori: meno garanzie nel rapporto uguale a più garanzie sul mercato. Al contrario, la riduzione in atto delle tutele del rapporto a tempo indeterminato, non solo non ha apportato alcun beneficio visibile, ma ha accentuato la concorrenza tra i lavoratori e l’ulteriore precarizzazione dei rapporti, nonché la permeabilità del confine tra lavoro legale e lavoro illegale.

Nessun cambiamento di maggioranza costituirà di per sé una garanzia di cambiamento, se non si modificheranno radicalmente le culture politiche. È necessario, oltre che giusto, superare un sentimento diffusosi a sinistra a partire dall’inizio degli anni ’90, per il quale il crollo del comunismo ha coinciso con la rinuncia ad un progetto di cambiamento radicale e basato sul presupposto, ampiamente dimostrato dai fatti, che la natura intrinsecamente contraddittoria del modo di produzione capitalistico, tanto più nell’era della globalizzazione, richiede soluzioni ai problemi del lavoro, dell’ambiente, della legalità, del rapporto tra generazioni, che possono trascendere almeno in parte l’orizzonte socio-economico dato.

Ho parlato del lavoro, perché è un tema emblematico, ma non l’unico: peraltro, cambiare il lavoro non vuol dire soltanto avviare una profonda modifica legislativa, pure necessaria, ma anche e soprattutto capovolgere il concetto del lavoro come costo per recuperare quello, costituzionale, del lavoro come risorsa/valore; il che significa pensare ad una costellazione di risposte: poiché l’agibilità dei diritti fondamentali è una condizione essenziale per accedere a beni costituzionalmente protetti, come sanità, istruzione, previdenza, occorre ragionare anche in termini di cittadinanza democratica e di rappresentanza.

Vorrei chiudere questo contributo con due riflessioni su questi ultimi temi: un modello di cittadinanza realmente inclusivo deve partire dal dato fondamentale per cui la Costituzione fu scritta quando lavoratore e cittadino erano pressoché sinonimi, il che non è più nell’epoca dei grandi flussi migratori: tanti che oggi concorrono alla creazione della ricchezza collettiva sono esclusi dall’esercizio dei diritti politici. Questa situazione è accettata abbastanza passivamente, purtroppo, dall’attuale generazione di immigrati: lo sarà anche dalla seconda, che si affaccerà tra breve sul mercato del lavoro?

Una seconda considerazione: la delusione dei giovani che, dopo avere compiuto il proprio percorso formativo, non trovano sbocchi adeguati a livello professionale, sta diventando un fenomeno europeo. È senz’altro la spia di una grave difficoltà delle istituzioni rappresentative a collegarsi con istanze e malesseri della società. Alle problematiche dell’”intasamento” del rapporto tra rappresentanti e rappresentati, fino ad oggi, è stata data una risposta soprattutto in termini di semplificazione dei meccanismi di rappresentanza. Nei sistemi di governo locale, ciò è stato attuato attraverso un processo di concentrazione dei poteri decisionali in un’autorità monocratica, con una marcata assenza di contrappesi istituzionali; a livello nazionale, leggi elettorali volte ad una forzata semplificazione dello schieramento politico, hanno condotto la pur condivisibile esigenza di stabilità degli esecutivi al punto di mortificare la dialettica del governo parlamentare, per alimentare una riforma istituzionale implicita, basata sul rapporto diretto tra leadership e corpo elettorale che, portata ai suoi estremi, ha coartato il pluralismo politico senza apportare alcun vantaggio alla speditezza e all’efficacia dell’azione di governo.

Abbiamo tutti bisogno di un’agenda del cambiamento: il condivisibile appello ad occuparsi dei problemi concreti del Paese richiede però che essi siano definiti con chiarezza, e che non si cada nell’equivoco per cui i bisogni “concreti” sono soltanto quelli immediatamente percepiti come tali. Nel lungo periodo, la democrazia, in Italia, come in Europa, si deve misurare con le problematiche della cittadinanza e della rappresentanza, se intende fondare la propria credibilità anche dimostrando di essere il sistema politico più idoneo ad assicurare il godimento del maggior numero dei beni primari, materiali ed immateriali, al maggior numero di persone.

Valerio Strinati

fondazione nenni

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