Convegno internazionale “Pacem in terris” – Discorso del vicepresidente del Consiglio, On. Pietro Nenni

a cura di Maria Anna Lerario

Nel quadro dell’Anno della Cooperazione Internazionale in­detto dalle Nazioni Unite, è stata organizzata a New York dal 17 al 20 febbraio 1965 una conferenza internazionale dedicata ai princìpi dell’Enciclica « Pacem in terris ».

Si è trattato di un’iniziativa sorta sotto gli auspici del Centro Studi delle Istituzioni Democratiche con il concorso di vari altri enti culturali americani. La larga e attiva adesione di eminenti personalità governative e politiche, il patronato e lo appoggio dell’organizzazione delle Nazioni Unite, le vaste ripercussioni nella stampa internazionale, hanno impresso a questo convegno il carattere eccezionale di un incontro di leaders ed esponenti politici e intellettuali di ogni tendenza e di ogni parte del mondo, nello spirito universale del mes­saggio di Papa Giovanni XXIII.

Non è stato certo un fatto convenzionale e occasionale, ma al contrario particolarmente significativo e rilevante, che la solenne seduta di apertura sia stata tenuta nella sala della Assemblea Generale delle Nazioni Unite, con la partecipazione del Segretario Generale U Thant, del Direttore del Fondo Speciale Hoffmann, del Presidente dell’Assemblea; e con l’in­tervento del vice Presidente degli Stati Uniti Humphrey, che ha aperto il convegno con un discorso sugli obiettivi della pace, e di Adlai Stevenson, attualmente rappresentante degli Stati Uniti presso l’ONU. Un messaggio al convegno di Papa Paolo VI è stato letto dal Delegato Apostolico.

Ai successivi dibattiti hanno preso parte il vice Presidente e Ministro degli Affari Esteri del Belgio Spaak, il vice Presi­dente del Bundestag della Germania Federale Schmid, il Presidente della Commissione degli Affari Esteri del Senato degli Stati Uniti Fulbright, il vice Primo Ministro di Israele Eban, il Capo della Suprema Corte di Giustizia degli Stati Uniti Warren, l’ex Presidente della Colombia Camargo, il Pre­mio Nobel per la Pace Pauling, la signora Pandit, sorella di Nehru, il sociologo polacco Schaff membro del Comitato Cen­trale del Partito dei Lavoratori della Polonia, il teologo ameri­cano Tillich, lo storico inglese Toynbee, l’americano Kennan, già Ambasciatore degli Stati Uniti in URSS e in Jugoslavia, il sovietico Zhukov, Direttore dell’istituto di Storia dell’Accademia delle Scienze dell’URSS e molti altri esponenti di primissimo piano della vita politica e culturale dei paesi dell’occidente, dell’Europa orientale, dell’America latina, dell’Asia e dell’Africa.

Nel convegno sono stati discussi gli aspetti di fondo del problema della pace e della coesistenza e le maggiori questio­ni della politica internazionale, fra cui il problema dell’Europa e della Germania, quello della non proliferazione delle armi nucleari e del disarmo, gli aspetti istituzionali e giuridici di una efficace organizzazione dei meccanismi per assicurare il man­tenimento della pace e l’imperio del diritto, la ricerca di un più giusto equilibrio fra paesi industriali e paesi in via di sviluppo, ed altri argomenti di particolare importanza e attualità.

L’adesione italiana al convegno sulla « Pacem in terris », che ha avuto come scopo fondamentale quello di proporre, in un momento delicato e grave della situazione internazionale, il sommo problema del come mantenere e consolidare la pace, è stata recata dal vice Presidente del Consiglio on. Nenni con il discorso che qui pubblichiamo.

 

“Signore, Signori,

credo che si possa considerare un « segno dei tempi », secondo un’espres­sione che tornava sovente nell’Enciclica di Papa Giovanni XXIII, il fatto che la Organizzazione delle Nazioni Unite abbia dato il suo patrocinio all’iniziativa del Centro Studi delle Istituzioni Democratiche di consacrare una settimana di di­battiti alla « Pacem in terris ».

La solennità dell’inaugurazione della manifestazione nell’aula stessa dell’As- semblea dell’ONU; il discorso di importanza e di risonanza mondiale del vice Presidente degli Stati Uniti; il messaggio di Paolo VI successore di Giovanni XXIII sulla cattedra di San Pietro, sono qualche cosa di più di atti di buona volontà, sono un impegno a ricercare la soluzione dei problemi della nostra epoca.

Gli approfondimenti nell’interpretazione della « Pacem in terris » a cui par­tecipano personalità di ogni parte del mondo e di ogni indirizzo religioso, filo­sofico o politico, costituiscono un notevole contributo alla comprensione tra gli uomini e tra gli Stati.

E’ naturale che non dovesse mancare una voce italiana in codesta manife­stazione e ringrazio il Centro Studi delle Istituzioni Democratiche dell’invito a me rivolto e dell’occasione che mi offre di recare la mia adesione. Parlo natu­ralmente a titolo personale, anche se so di essere interprete del governo del mio paese, e oserei dire di tutti gli italiani, nel sottolineare con particolare vi­gore l’importanza e l’attualità della « Pacem in terris ».

E’ superfluo, io credo, premettere che l’Enciclica di un Pontefice è sempre un documento teologico o ecumenico da non interpretare in chiave politica; pur tuttavia la « Pacem in terris » nel momento in cui fu pubblicata, 1’11 aprile 1963, e negli studi e nei riferimenti successivi, fu anche un monito politico rivolto agli uomini di buona volontà di ogni fede, di ogni convinzione, di ogni condizione sociale, rivolto ai governi e in maniera diretta all’organizzazione delle Nazioni Unite.

Ho ricordato la data in cui l’Enciclica venne pubblicata, il 1963: un anno difficile e tormentato nelle relazioni internazionali, l’anno in cui l’umanità fu colpita da due sciagure, la morte dell’Autore dell’Enciclica il 3 giugno, l’as­sassinio del Presidente Kennedy il 22 novembre.

Sparivano così dalla scena del mondo due fra i maggiori protagonisti di quel riavvicinamento tra i popoli e tra gli Stati che è il problema ancora in­soluto delle generazioni che hanno vissuto il dramma delle due guerre mon­diali del nostro secolo.

Benché la « Pacem in terris » abbia come oggetto l’uomo nel suo rapporto con Dio e la società, pure tra quel documento e l’opera del Presidente Ken­nedy, e I’impulso dato alla coesistenza pacifica dall’allora Primo Ministro so­vietico Kruscev, ci fu una correlazione che venne avvertita dai popoli quasi drammaticamente.

Che cosa oggi ci interessa e ci appassiona nella « Pacem in terris » ?

Che cosa ha interessato quelle correnti socialiste e del movimento operaio e dei lavoratori che, dopo avere in loro medesime distrutto le radici dogma­tiche e settarie della guerra fredda, erano, come sono, alla ricerca di una so­luzione negoziata dei problemi ereditati dalla guerra e tuttora aperti ?

Direi soprattutto tre cose.

L’accento che è quello di un uomo, di un Pontefice, il quale soffriva del disordine morale e politico del mondo e della precarietà della pace.

In secondo luogo il richiamo al principio della «sussidiarietà», per cui la pace in terra non è solo una questione di Stato o di rapporto tra gli Stati, ma trova espressione nella giustizia sociale e nelle relazioni degli esseri umani tra di loro, degli esseri umani coi poteri pubblici all’interno delle singole comunità politiche o nazionali, delle comunità tra di loro, delle comunità na­zionali con la comunità mondiale che ha nell’ONU una delle sue più va­lide espressioni.

In terzo luogo la fermezza e la precisione di linguaggio, di formule e financo di proposte, con le quali la « Pacem in terris » affronta i problemi concreti della pace e della sua organizzazione.

Mi limiterò a ricordarne alcuni: la condanna di ogni traccia di razzismo; la difesa dei diritti delle minoranze laddove le frontiere geografiche non coin­cidono con quelle etniche; la denuncia degli esperimenti nucleari e la messa al bando delle armi atomiche; l’invocazione a mettere termine alla corsa agli armamenti e l’invito alla loro riduzione simultanea e reciproca.

Ma l’attualità della « Pacem in terris » non è solo nella validità di codesto invito ai popoli e ai governi, ma anche, e direi soprattutto, in due altri prin­cìpi che costituiscono l’essenza stessa dell’Enciclica. Il rifiuto di accettare la giustificazione degli armamenti adducendo, come diceva Papa Giovanni, « il motivo che se una pace oggi è possibile non può essere che la pace fondata sull’equilibrio delle forze », principio che dai popoli e dai governi può essere accettato come una provvisoria necessità, ma che in sé contiene il rischio, indicato da Papa Giovanni, che « un fatto imprevedibile e incontrollabile pos­sa far scoccare la scintilla che metta in moto l’apparato bellico ».

Il secondo principio che ispira la « Pacem in terris » è la consapevolezza che il disarmo degli spiriti e il « dissolversi della psicosi bellica » sono altret­tanto necessari del disarmo bellico.

A tal fine Giovanni XXIII dava di queste necessità un’applicazione di im­mensa portata nella parte più strettamente ecumenica dell’Enciclica, laddove introduceva la distinzione tra l’« errore » e l’« errante », e la distinzione tra quelle che definiva, dal suo punto di vista, « false dottrine filosofiche sulla natura, l’origine e il destino dell’universo e dell’uomo » e i movimenti originati da quelle dottrine, condizionati nel loro sviluppo dagli influssi di condizioni storiche in perpetua evoluzione, tali quindi da contenere elementi positivi sui quali è sempre possibile un incontro di ordine pratico.

Con ciò Papa Giovanni condannava il nefasto spirito di crociata che è stato, ed in parte è ancora, uno dei fattori di decomposizione dell’unità tra gli uo­mini, tra i popoli, tra gli Stati.

A questo punto c’è da chiedersi che cosa, a due anni ormai dalla « Pacem in terris », è stato fatto per realizzarne gli obiettivi.

La mia modesta risposta è che si è fatto poco, anche se non sarebbe giusto dire che non si è fatto nulla, tanto è vero che siamo usciti dalla fase più acuta della guerra fredda.

Il mondo conosce tuttavia ancora numerosi motivi di turbamento. La con­ferenza del disarmo si trascina a Ginevra senza concludere. L’Organizzazio­ne delle Nazioni Unite è sovente più la cassa di risonanza dei contrasti na­zionali o di potenza piuttosto che la sede della loro armonica soluzione. Talvolta il mondo sobbalza di inquietudine di fronte all’esplosione di conflitti lo­cali che rischiano di diventare un motivo di conflitto generale.

Un giorno è l’Asia e in questo momento specialmente I Asia sud-orientale con |problema aperto del Vietnam, un giorno è l’Africa con il Congo o è il Medio Oriente con i suoi contrasti, un giorno è l’Europa dove rimane aperto il problema dell’unità tedesca e dove è sorto e ancora non è risolto quello minore o periferico di Cipro.

Che cosa scontiamo ? Scontiamo il ritardo nella soluzione dei problemi ere­ditati dalla guerra. Scontiamo la permanenza di truppe straniere in punti nevralgici dove soltanto una forza internazionale come I ONU può essere ac­colta come una garanzia di indipendenza. Scontiamo la teoria dello « statu quo » che ha avuto un senso, e ne conserva uno, ma a condizione che ci sia la decisione di uscirne con il solo mezzo possibile, che è quello del negoziato. Scontiamo il persistere della mentalità e dell’indirizzo che ebbe un significato o una giustificazione vent’anni or sono nella Conferenza di Yalta, quello della divisione del mondo in zone d’influenza separate da un’invisibile o visibile cortina d’acciaio. Scontiamo la proliferazione degli armamenti e delle armi atomiche.

Noi europei scontiamo il ritardo sulla via dell’unificazione democratica del nostro continente. Tutti insieme, Occidente e Oriente, scontiamo le reticenze nell’affrontare sul serio la questione del disarmo. L’ONU stessa risente neces­sariamente di tutti questi fattori negativi dai quali è sovente paralizzata nelle sue decisioni, come nel presente momento.

Risolvere i problemi ereditati dalla guerra o sorti dal costituirsi di nuovi Stati o di nuove Nazioni; assicurare ai paesi sottosviluppati l’aiuto di cui han­no urgente bisogno per non diventare involontariamente fattori di disordine e qualche volta di eversione; muoversi concretamente sulla via della messa al bando delle armi nucleari e della riduzione progressiva delle armi convenzio­nali; favorire l’intesa diretta tra Washington e Mosca; ecco ciò che occorre fare perché la « Pacem in terris » divenga una realtà.

Tra i motivi ispiratori dell’Enciclica giovannea vi era certamente il dramma vissuto dal suo autore nelle due guerre mondiali che, nello spazio di venticin­que anni, hanno insanguinato il mondo e distrutto una somma enorme di beni morali e materiali.

Tocca agli uomini della generazione della prima e della seconda guerra impegnarsi a fondo per la pace e per legare alla giovane generazione un mondo meno esposto di quanto non lo sia ad implacabili eversioni razziali, nazionali o continentali.

Essersi riuniti a New York per magnificare (‘Enciclica « Pacem in terris » ha un senso, se di qui sorge più imperiosa che mai la volontà di risolvere i pro­blemi che fanno ostacolo alla pace, di risolverli nel solo modo degno di uomini civili, e cioè attraverso pacifici negoziati, di risolverli nell’ambito dell’organiz­zazione delle Nazioni Unite restituendo l’ONU alla sua ispirazione originaria.

Signori, qui si è parlato dell’Europa; ne hanno parlato con impegno alcuni tra i più qualificati rappresentanti del movimento verso l’unità politica ed eco­nomica di un’Europa democratica.

Si tratta da questo punto di vista di realizzare almeno tre condizioni pre­giudiziali.

La prima, superare la concezione di un’Europa unita sulla base di alleanze tra gli Stati del vecchio tipo tradizionale e promuovere la diretta partecipazio­ne dei popoli ai quali noi italiani crediamo si debba dare la parola con l’ele­zione di un’assemblea parlamentare europea eletta a suffragio universale.

La seconda, l’associazione dell’Inghilterra e dei paesi scandinavi a questo sforzo e a questo impegno nelle forme attualmente e via via possibili.

La terza, la ricerca di una soluzione graduale della questione tedesca che è, oltre che un’esigenza storica, anche causa ed effetto dei rapporti tra gli Stati europei dell’ovest e quelli dell’Est.

L’Italia partecipa e parteciperà sempre più attivamente al movimento di uni­ficazione dell’Europa.

Essa ha di recente formulato proposte relative alla presente fase di riduzione progressiva delle sovranità nazionali in materia economica e del passaggio ad impegni comuni di ordine politico.

I prossimi mesi saranno decisivi dal punto di vista dello sviluppo del primo embrione di una comunità politica europea affiancata alla comunità economi­ca, e lo saranno nella misura in cui verranno superati gli egoismi nazionali e di Stato, in una visione continentale del destino dell’Europa e della sua fun­zione di pace nel mondo.

Ma la ricerca, o anche la realizzazione di intese regionali, utili sempre, non sarebbe sufficiente al definitivo consolidarsi della pace, se ci allontanassimo dai grandi princìpi della Carta delle Nazioni Unite, dalla Dichiarazione uni­versale dei diritti dell’uomo e delle collettività umane, dalla coesistenza pacifi­ca e dalla distensione nelle relazioni internazionali.

Nella misura in cui la presente conferenza di studi concorrerà a ridare vi­gore a questi princìpi, tutti presenti ed operanti nell’Enciclica giovannea « Pacem in terris », noi avremo a nostra volta recato un contributo sostanziale all’organizzazione della pace, meta degli sforzi di quanti, come chi vi parla, hanno vissuto il dramma delle due ultime guerre mondiali e vogliono concor­rere ad impedire una terza guerra più mostruosa delle precedenti e tale da distruggere, per i mezzi di cui dispone, le basi stesse dell’umanità.

Facciamo, Signori, tutto quello che è in nostro potere, e non è poco, perché la pace in terra divenga la realtà del mondo di oggi e di domani.”

fondazione nenni

Via Alberto Caroncini 19, Roma www.fondazionenenni.it

Rispondi