di Maria Anna Lerario
Nel corso della storia italiana, si sono avvicendante numerose e importanti riforme nel sistema scolastico del paese, spesso specchio dell’energia – rivoluzionaria, riformista o conservatrice – delle varie forze di governo.
Tra queste, una delle più significative è stata la legge n.1859/1962 che ha introdotto la scuola media unica e obbligatoria e che ha contribuito a cambiare i connotati del sistema educativo italiano e del tessuto sociale.
Entrata in vigore il 31 dicembre 1962, la riforma è nata sotto il primo governo di centro – sinistra e ha portato alla creazione di un nuovo ciclo di istruzione: i primi due anni della scuola media inferiore (11-13 anni) e la scuola media superiore (14-16 anni) furono unificati in un ciclo unico di tre anni, obbligatorio.
Sessant’anni fa, dunque, dal primo ottobre 1963, il mondo della scuola e la società civile ebbero a che fare con un nuovo modello formativo: una vera e propria rivoluzione che non mancò di generare critiche, dibattiti anche aspri e considerazioni più o meno generose sull’adeguatezza della riforma della scuola al tessuto sociale di quell’epoca.
Quello che per noi, oggi, rappresenta la normalità è il frutto di un grande lavoro riformista, fortemente voluto dal PSI e seguito attentamente e con costanza da Tristano Codignola[1], per rendere l’istruzione più accessibile a tutti i ragazzi, indipendentemente dal loro background socioeconomico.
Già nel 1958 Pietro Nenni, in un lungo discorso alla Camera, affrontava il problema della scuola ponendo l’accento su temi che hanno una valenza universale e tutt’ora valida. Diceva Nenni:
“Quello della scuola non è soltanto problema quantitativo ed economico (di aule, di numero dei maestri, degli insegnanti e degli scolari) ma è anche problema qualitativo e politico di indirizzo scolastico (…)
Le tre esigenze fondamentali del rinnovamento della scuola [sono]: la sua democratizzazione, un nuovo orientamento dell’insegnamento, l’adeguamento dell’insegnamento alle esigenze dello sviluppo economico e tecnico dei nostri tempi.”
E ancora, nel 1960, in un discorso alla Camera dei Deputati, in pieno dibattito sulla riforma, Nenni esplicitò le idee del Partito socialista in merito: “Chiediamo – disse – che la scuola si trasformi in un centro consapevole di preparazione della gioventù alla vita democratica”
La Scuola Media Unica aveva, dunque, l’obiettivo di fornire una base educativa solida e comune a tutti gli studenti, garantendo che fossero preparati per affrontare le sfide del futuro. Il tutto, in pieno accordo con il principio affermato dall’art.34 della Costituzione, entrata in vigore quindici anni prima:
“La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita”.
La portata innovatrice dell’introduzione della Scuola media unica è indiscutibile: nella società intera si apriva, per la prima volta, un dibattito importante sull’educazione, la formazione e il futuro dei giovani e si agiva per rompere le dighe di uno status quo rigido e conservatore.
Del resto, erano quelli gli anni del grandissimo fermento, in cui la crescita e la consapevolezza collettiva veniva alimentata dall’esigenza intestina di raggiungere obiettivi di emancipazione civile e sociale. Quella fu la stagione delle grandi riforme: dalla scuola media unica, allo statuto dei lavoratori, alla legge su divorzio. Riforme che nascevano non solo da una classe politica appassionata ma anche da una grande partecipazione popolare.
Il boom economico aveva portato con sé un cambiamento radicale che si era ormai insinuato in gran parte della popolazione: il bisogno di una società più equa, solidale e moderna. E la scuola era ancora “quella ereditata dal fascismo: classista, discriminante e selettiva. In quegli anni, 900mila ragazzi non frequentavano alcuna scuola. Nei primi anni Sessanta c’erano, in Italia, oltre 3 milioni di analfabeti”[2]. È in questo contesto che si comincia a discutere di scuola media unica obbligatoria: un modo di arginare le disuguaglianze tra chi aveva la possibilità di continuare gli studi e chi, invece, era destinato ai campi o alla fabbrica, senza altri orizzonti.
Il dibattito parlamentare che portò all’approvazione della Legge 1859 non fu dei più facili: quattro anni di lunghissimi e accesi dibattimenti, polemiche e resistenze soprattutto sull’abolizione del latino, sull’introduzione di nuove materie tecnico -scientifiche e sulle risorse necessarie ad avviare un nuovo corso educativo. La battaglia tra riformisti e conservatori fu aspra. Le lotte più grevi furono portate avanti in Parlamento sulla questione del latino, che si investì di una forte connotazione politico- sociale. Ai tempi era un argomento talmente significativo che persino Gianni Morandi ci scrisse su una canzone.
Il latino era, per i socialisti e i riformisti un simbolo conservatore: Pietro Nenni definì il latino “la lingua dei signori”, uno status symbol, insomma. Non era, però solo la chiesa e la destra in generale ad alzare muri sulla “questione del latino”, una lingua che per loro rappresentava la difesa della scuola elitaria.
Tuttavia, anche il PCI era fortemente contrario all’abolizione: la battaglia per il latino, nelle file comuniste, era portata avanti da Concetto Marchesi, autorevole esponente del Partito comunista, latinista e letterato che difese il la lingua classica, considerandola un grande esercizio formativo dell’intelletto da non eliminare e da non far soccombere “alle ragioni del mercato”. Il latino era dunque, al centro di discussioni animate che mettevano a nudo le esigenze e le contrapposizioni di quel periodo: la cultura o la tecnica? Status symbol o bene collettivo? Passato o futuro? Alla fine, si optò per un sistema ambiguo: il latino sarebbe stato insegnato nel secondo anno come supporto integrativo dell’insegnamento di italiano e al terzo anno e in via facoltativa. Era però necessario per accedere al liceo classico.
Il Pci finì con il votare “no” alla riforma, non solo per il latino (che pur rappresentò l’argomento su cui si costruì il dissenso), ma anche per evidenziare nettamente la contrarietà alla nuova stagione politica inaugurata dal centro-sinistra.
Il PSI di Nenni, nei fatti, ruppe l’alleanza con i comunisti che durava dal Dopoguerra, facendo emergere divergenze insanabili proprio sulla scuola media unica e sulla statalizzazione dell’energia elettrica.
Pur zoppicante, nei primi anni a causa della confusione organizzativa e al centro di successivi dibattiti nella pianificazione economica delle risorse, la scuola media unica ebbe un grandissimo impatto sulla società e raggiunse obiettivi importantissimi: l’obbligo scolastico coinvolgeva i giovani studenti fino al 14esimo anno di età, l’analfabetismo fu contrastato (i quattordicenni con la licenza media aumentarono fino all’89% e si ridusse il lavoro minorile), si impose il concetto – non scontato fino a quel momento – della democratizzazione della scuola e dell’educazione, non più esclusiva ma inclusiva e indipendente dalle possibilità economiche e, fondamentale, si rafforzò culturalmente il concetto del diritto allo studio per tutti.
È proprio grazie all’introduzione della scuola media unica che, nei decenni successivi, si affermò la scuola secondaria superiore, aprendo la strada al progresso.
L’istituzione della Scuola Media Unica nel 1962 è stata, dunque, una delle riforme educative più significative nella storia italiana. Ha dato il via a una migliore democratizzazione dell’istruzione, ha favorito una maggiore coesione culturale e ha preparato i giovani per sfide e opportunità future. Questa riforma ha contribuito a plasmare il sistema educativo italiano come lo conosciamo oggi, lasciando un segno indelebile nella storia dell’educazione nel paese.
Ricordare l’introduzione della scuola media unica, questa grande riforma che ha silenziosamente rivoluzionato la storia del paese non è solo un esercizio di memoria, ma uno spunto di riflessione sulla scuola del presente e sul futuro che vogliamo o vorremmo costruire per i nostri ragazzi.
La scuola non versa nelle migliori condizioni. Difficoltà come quelle che si riscontravano nel 1960 (mancanza di docenti, inadeguatezza dei programmi, edilizia scolastica in condizioni pessime ecc.) sono tuttora presenti.
Guardando al passato, tuttavia, possiamo trovare ispirazione nel fatto che le riforme audaci e il desiderio di miglioramento hanno portato a un cambiamento significativo e concreto.
Oggi, come allora, è essenziale continuare a investire nell’istruzione come mezzo per promuovere la crescita individuale e collettiva. Siamo chiamati a guardare al futuro con la stessa determinazione che ha guidato la riforma della Scuola Media Unica nel 1962, affrontando le sfide attuali per garantire un sistema educativo che sia all’altezza delle aspettative e delle esigenze delle nuove generazioni. La scuola è il cuore della nostra società e del nostro futuro, e la sua evoluzione continua a essere una priorità fondamentale.
[1] Codignola concentrò la sua attività parlamentare e politica sui problemi della scuola. Sostenne l’istituzione della scuola media unica, della scuola materna statale e s’impegnò per le riforme della scuola secondaria superiore e dell’università.
[2] Luigi Nardo in “Andavamo a scuola con la 600”, AA.VV Bibliotheka, p.3