– di LUCA GIAMMARCO –
L’uomo è una disfunzione.
Una posizione del genere, in altri tempi, sarebbe stata presa come contraria alla teoria dell’evoluzione di Darwin. Ma così non è.
Basta pensare a un fatto tipico, non solo dell’epoca moderna, ma del quotidiano fin dai primordi: l’uso di protesi.
Perché l’uomo ricorre continuamente a protesi, cioè prolungamenti meccanici del nostro corpo, per certe funzioni che, da soli, siamo impossibilitati a svolgere?
Occhiali, apparecchi acustici, impianti dentali, automobili, aerei, treni, biciclette, motociclette, smartphone, telefoni classici, computer, coltelli, forbici, accendini, macchine a gas… Un elenco che potrebbe continuare all’infinito. Oggetti che sono il naturale prolungamento del corpo umano. O meglio: di suoi deficit.
Consapevoli di non poter volare, abbiamo inventato l’aereo. Consci di non poter camminare o correre a determinate velocità come i felini, ci viene in soccorso l’automobile o la bicicletta o la moto se non lo scooter. Non disponendo di artigli e denti in grado di afferrare, uccidere e sminuzzare, ecco pronti coltelli e forbici e forchette.
E così via.
Le protesi non sono, non lo sono mai state, il prolungamento di certe facoltà sopite o assenti del nostro corpo, ma una loro radicale sostituzione.
Laddove c’è il progresso della tecnica, latente alligna il regresso dell’umano.
Tutto ciò non è una conquista dell’epoca moderna. Fin dagli albori l’uomo ha sempre dovuto fare ricorso alle protesi. Da quando, per meglio dire, da frugivoro – mangiatore di radici e frutti della terra – è diventato carnivoro: dapprima nutrendosi di ciò che restava delle carcasse di altri animali a loro volta cacciati e uccisi da loro simili, e poi trasformandosi in cacciatore per imitazione dei predatori, nemici naturali dell’uomo.
Il fatto di essere bipedi, di avere piedi piccoli e una testa pesante rispetto al resto del corpo così com’è strutturato: anche questo è indice di una disfunzione alla quale altre ne conseguono di natura medica: quelle di tipo ortopedico (scoliosi, cifosi, lordosi, il piede piatto, coxartrosi, e via discorrendo).
L’alimentazione. Come si diceva poc’anzi, l’uomo nasce mangiatore di carne e frutti, non di carboidrati. Per i quali il nostro apparato digerente ha dovuto escogitare complicati processi digestivi non esenti da alcune disfunzioni oggi note come intolleranze o patologie (la più famosa tra tutte: la celiachia).
Sono alcuni esempi, ma tra i più significativi per comprendere chi siamo e nel modo più autentico e disincantato possibile.
Avere coscienza di essere disfunzionali come organismi viventi di un ecosistema di per sé perfetto non vuol dire non vivere più una vita degna di tale significato e valore. Vuol dire esistere in senso autentico, del tutto indipendenti da certe magie che ottundono un esercizio sano di pensiero scientifico (nel senso di magnificazione dell’umano e non di banale possesso del mondo).
Per approfondire queste tematiche, prossime a noi più di quanto si pensi, suggerirei la lettura di questi libri bellissimi e illuminanti: Il cacciatore celeste di Roberto Calasso e La voce umana di Giorgio Agamben.
Ed è con una citazione, significativa a mio avviso, tratta dal libro di Calasso che vorrei chiudere queste mie riflessioni sulla natura dell’essere umano: “L’uomo non è un predatore nato, ma un predatore acquisito. Per diventare tale, ha dovuto negare ciò che era, aggiungendo al suo corpo una protesi – una selce scheggiata, un’asta acuminata, un arco”.