Felicità: presupposto e scopo della medicina

di Luca Giammarco

Perché si va dal medico? È una domanda che, come professionista della sanità, mi sento ripetere spessissimo, soprattutto da persone alle quali vengono diagnosticate patologie d’una certa serietà.

Non so trovare una risposta giusta. Meglio: non riesco a trovare una risposta che soddisfi le aspettative del paziente.

Perché i pazienti, spessissimo, non vanno dal medico – da quello di famiglia al qualificato e quotato specialista – per comprendere cosa c’è che non va nel loro corpo, comprenderlo fino in fondo e risolvere l’anomalia o iniziare a scoprire come conviverci.

Non è, non sempre, la guarigione quella che un medico può offrire al paziente. Spesso si tratta di insegnare a saper portare, ricorrendo a una terminologia popolare e di derivazione cristiana, la croce sulle spalle con una certa consapevolezza ed anche una certa dignità e qualità di vita (quando le circostanze lo consentono).

Il medico, allora, quando visita un paziente deve sempre battagliare su due fronti: quello scientifico (certamente il più importante), e quello mentale del paziente (parallelo direi, più che secondario, ma non meno importante). Tale ultimo fronte, direi, spesso si rivela essenziale per un certo tipo di percorso riabilitativo in senso lato.

Succede questo, per dirla in soldoni: un paziente affetto da una patologia (non da malattia, come ho spiegato in un mio articolo precedente qui sul Blog) va dal medico per vedere fugati i propritimori. Timori che, sovente – è umano! – hanno a che fare con la paura del nostro essere mortali. Di giungere, cioè, a questa inevitabile meta attraverso atroci sofferenze.

Il medico che non può, per evidenze scientifiche incontrovertibili, fugare tali timori, si trova, dopo aver provveduto a dire la verità alla persona che gli sta di fronte, a fugare ogni tipo di preconcetto che si annida nella mente di quest’ultima e che può ostacolare un percorso medico, se non di guarigione, almeno di giusta e qualitativa (nei limiti del possibile) convivenza con la patologia appena scoperta.

Il dottore o lo specialista debbono far capire al paziente che la scoperta, la presa di coscienza di una patologia, anche se grave, non sempre significa morte certa entro un breve termine e, per giunta, soffrendo terribilmente. Semmai vuol dire, può voler dire, anche alla luce delle recenti scoperte scientifiche, una buona e accettabile convivenza con la patologia; modificando ciò che è necessario modificare nel quotidiano e cercando di ricalibrare l’esistenza alla luce di una giusta compensazione fra ciò che il paziente desidera per sé e ciò che può effettivamente e realisticamente fare alla luce della sua nuova condizione.

Sinteticamente: è importante che il medico, in ogni situazione, trasmetta un senso di felicità al suo paziente; anche, e soprattutto, quando deve comunicargli notizie poco piacevoli (sottinteso: non sentenze di morte).

Vi sono tantissime patologie, importanti, con le quali si può ormaiconvivere. Il fisico ha una sua capacità di adattamento straordinaria, impensata sotto il profilo mentale.

Al di là delle cure, al di là delle evidenze scientifiche che è tenuto a comunicare: fermo restando tutto ciò, un medico ha il dovere di rendere felice il suo paziente, rendendolo consapevole delle capacità di adattamento che la sua biologia fisica è in grado di attuare per restituire una quotidianità vivibile e di buona qualità.

Questa la felicità medica che intendevo.

Per saperne di più, suggerirei la lettura di un libro illuminante, oltre che divertente e piacevolissimo: L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello di Oliver Sacks.

pierlu83

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