di Maurizio Fantoni Minnella
1. Tutto cominciò quando, nella seconda meta del XIX secolo, la città uscì per la prima volta dai suoi confini naturali, quelli del proprio nucleo storico di fondazione. Vi era stato in età rinascimentale un illustre precedente con la cosiddetta “addizione erculea”, nome derivante dall’allora figura regnante nel ducato ferrarese di Ercole III d’Este progettata dall’architetto Biagio Rossetti (1447-1516).
Nell’analizzare il piano urbanistico della città storica di Palermo, l’architetto Antonietta Jolanda Lima, definisce i “Quattro Canti” (1) come una violenza sul tessuto urbano preesistente: il tracciato a forma di croce latina ripartita in quattro comparti o settori al cui vertice troviamo una sorta di piazza ottagonale o punto di congiunzione delle due direttrici viarie, voluto dai vicerè spagnoli in totale accordo con le autorità ecclesiastiche, evidenziava la natura squisitamente politica dell’intero piano urbanistico che costò l’abbattimento di interi quartieri antichi in funzione di una nuova rappresentazione della città ma anche di controllo delle classi povere urbanizzate mediante il passaggio dalla naturale trama medievale di vicoli sul modello delle città islamiche, formatasi spontaneamente secolo dopo secolo secondo necessità e adattamenti degli abitanti, ad una, pianificata dall’alto, perciò autoritaria, sul modello delle antiche città spagnole di fondazione a pianta ortogonale, che mescolava disinvoltamente ambizioni estetiche e insieme politiche.
A Genova, invece, troviamo un altro esempio di pianificazione urbanistica ante-litteram nella Strada Nuova o via Aurea, ribattezzata poi in via Garibaldi, il cui risultato urbanistico, al di là dei valori architettonici presenti, rappresentati non solo dai singoli palazzi ma anche dalla loro unità, non ebbe comunque gli esisti devastanti di Palermo (2). Si andò creando un vero e proprio quartiere aristocratico per volontà delle più potenti famiglie della città, stanchi di condividere gli angusti spazi medievali con il popolo, sulle macerie di un tessuto edilizio popolare nel quale storicamente si esercitava il vizio. Insomma i palazzi sostituirono i bordelli che, per così dire, si spostarono un po’ più in basso, nella parallela via della Maddalena, oggi teatro di prostituzione d’origine latinoamericana, in netta continuità con il passato.
Se, dunque, la città si sviluppava all’esterno delle mura che per secoli l’avevano circondata e difesa, era per ragioni demografiche, ossia il sovraffollamento. Ed è proprio in un’epoca di pieno sviluppo industriale che si incomincia a riflettere, talora con esisti devastanti, sul destino dei cosiddetti “centri storici”, depositari per secoli della memoria storica, artistica e architettonica delle città. In molti casi si abbatterono intere cinte murarie e quartieri urbani lasciando in piedi soltanto alcuni monumenti significativi di riconosciuto valore come chiese o basiliche (Milano ne è un esempio molto eloquente), che tuttavia, ricollocate nel nuovo contesto urbano, venivano come decontestualizzate, apparendo piuttosto delle pregevoli emergenze architettoniche, che il risultato dell’evoluzione del territorio urbano nel complesso intreccio tra stile, architettura e urbanistica. Sebbene la città si espandesse nell’immediata periferia, concetto, invero di conio recente, il suo cuore restava pur sempre appannaggio delle classi popolari. Nel caso specifico di Napoli già tra la fine del XIX secolo e gli inizi del XX, si parlava di “classi pericolose” per indicare la presenza della cosiddetta plebe napoletana, le cui condizioni di vita al limite dell’umano, come rilevava la scrittrice Matilde Serao (1856-1927) nel suo intenso e altresì documentato reportage Il ventre di Napoli, 1884 (3) erano portatrici di sporcizia, delinquenza, criminalità. La risposta fu il diradamento edilizio con la creazione di Corso Umberto I, conosciuto come il “rettifilo” che comportò lo sbancamento di una parte della vecchia Napoli. La parola stessa rettifilo presuppone il verbo rettificare, ossia trasformare l’esistente in funzione di quello che oggi viene definita come rigenerazione urbana. Sul modello francese voluto dal barone Haussmann (1809-1891) che cambiò per sempre l’assetto del centro della città di Parigi, avviando così un processo di modernizzazione, si crearono in tutta Europa i cosiddetti viali di circonvallazione in sostituzione delle mura storiche. I nuovi quartieri, sorti a cavallo tra i due secoli, furono perlopiù prerogativa della nuova classe borghese che lasciò la città vecchia, divenuta insalubre e angusta, alle classi popolari. Con la crescita della classe borghese mercantile moderna, per la prima volta viene concepita una prima lettura critica del passato, qui nella fattispecie della città di fondazione con il suo sedimento millenario. Fu, dunque, affidato alla borghesia un ruolo centrale nella definizione del destino delle città storiche proprio nel momento in cui essa poteva meglio osservarle da un osservatorio privilegiato, quello dell’ascesa economica da un lato e quello del nuovo posizionamento urbano dall’altro. Agli arbori del XX secolo l’Europa e l’Italia moderne, della belle époque, potevano contare già da alcuni decenni di nuovi quartieri nati all’insegna del decoro borghese urbano e ingentiliti dal nuovo linguaggio architettonico del liberty o art nouveau che fu innanzitutto uno stile internazionale, che ebbe come sappiamo una vita breve ed effimera, tuttavia fortemente manifestatosi come un fil rouge, dalla Russia alla Spagna, passando per l’Europa Centrale e l’Italia. Ma già durante il ventennio fascista la vergogna delle classi povere e dei loro quartieri passava attraverso la retorica del regime che si affrettò anche per ragioni di celebrazione dell’impero, ad avviare la più imponente opera di risanamento edilizio dell’intera storia d’Italia, con l’apertura di via dei Fori Imperiali. Il piccone demolitore all’opera nella capitale fu certamente un modello per il resto del paese dove l’ideologia della discriminazione di classe e insieme della speculazione edilizia venivano costantemente ammantate di “valori”, di decoro e di modernizzazione.
Insomma, nell’arco di mezzo secolo vennero cancellati interi quartieri storici nelle grandi città ma anche nei centri minori. I promotori di tali scempi, spesso frutto di un connubio tra pubblico e privato, nel mentre parlavano di risanamento edilizio per scopi igienici, chiudevano lauti contratti per la ricostruzione di lotti o di interi quartieri. L’avidità del mostro edilizio esploso sulle rovine della seconda guerra mondiale, che fu causa della perdita di una parte del patrimonio edilizio e artistico dell’Italia e di parte dell’Europa, non si placò di certo sul finire del cosiddetto boom economico, ma proseguì anche dopo. Nella prima metà degli anni settanta, a Genova, infatti, si perpetrò a freddo l’opera di demolizione dell’intero quartiere medioevale di Madre di Dio dove si conservava il più autentico spirito della “genovesità” popolare. Dalle bombe inglesi cadute nel capoluogo ligure durante il secondo conflitto mondiale che in parte colpirono ma non irrimediabilmente il quartiere, si attesero, cinicamente trent’anni prima di compiere la sua cancellazione dalle mappe della città vecchia! Un simile scempio non sarebbe stato possibile a Napoli, per esempio alla Sanità, dove l’orgoglio dei napoletani e il loro attaccamento al territorio, alla città partenopea nella sua totalità, avrebbe certo impedito che ciò avvenisse.
2. Negli ultimi decenni del secolo scorso si avviò un intenso dibattito sul destino dei centri storici. Questa stessa definizione, piuttosto che quella di città vecchia, diventò in breve tempo una sorta di codice topografico, di elemento di distinzione nella nuova dialettica tra città e periferia urbana. Questo venne a coincidere con il nuovo interesse della borghesia a riappropriarsi degli spazi dei quartieri storici, rivalutando lo skyline di chiese, torri e campanili con sguardi panoramici da attici e superattici ricavati nel cuore delle città. Nella riproposizione dei valori dell’autenticità, della lentezza e della pedonalizzazione degli spazi pubblici. In altre parole, di una quotidianità che fosse più a misura d’uomo. Ciò dovette implicare necessariamente una crescita esponenziale dei valori immobiliari che ebbero come conseguenza l’esclusione dei vecchi abitanti, spesso appartenenti alle classi popolari, sostituiti dai nuovi residenti. Il mutare della composizione sociale urbana venne a coincidere con il restauro conservativo di singoli edifici o di interi comparti allo scopo di rigenerazione e rivalorizzazione delle specifiche caratteristiche storiche e di eventuali pregi artistici. Si tratta di un fenomeno complesso e di ampia portata che portò enormi vantaggi al mercato immobiliare, ai singoli proprietari e in qualche misura all’insieme del paesaggio e alla qualità dei centri storici. Tuttavia pagandone un prezzo piuttosto alto, equivalente alla perdita delle singole identità, ad uno snaturamento dei modelli di vita urbana che in essi si è sempre svolta. Un altro fattore che contribuì a determinare il presente scenario è rappresentato dalla trasformazione lenta ma inevitabile della natura stessa del commercio il cui asse si è progressivamente spostato dalla bottega artigianale al centro commerciale, dal centro alla periferia, impoverendo e oltremodo svuotando il tessuto sociale urbano tuttavia ottenendo come risultato una sorta di mutazione che consiste nell’essere passati dalla città naturale alla sua splendida rappresentazione i cui principali attori sarebbero i grandi monumenti storici esibiti accanto a locali di tendenza, ristoranti e negozi per turisti o di marchi globali. Quindi all’idea di città globalizzata corrisponde per inverso quella di città d’arte, sebbene i due termini non siano necessariamente così antitetici. Infatti il raggiungimento di una certa uniformità nell’immaginario urbano non esclude la presenza di manufatti d’arte, anzi, tende ad esaltarla proprio come eccezione e come eccellenza. Tutto ciò a discapito della percezione del manufatto urbano, del corpo della città storica nella sua totalità. Centri storici e città d’arte (spesso i due termini si identificano), sono ormai, diventati dei brand su cui agiscono allo stesso modo sia gli investitori immobiliari che l’Unesco. I primi fanno lucrosi affari, la seconda, invece, garantisce valorizzazione, protezione e prestigio dei manufatti. Un paradosso apparente che trova la propria risoluzione nell’obbligo di rispetto dei parametri che consentono la salvaguardia dei beni culturali presenti. In questa prospettiva urbana ormai in larga parte gentrificata, si profila una nuova discriminante sociale capovolta. Se un tempo erano i poveri ad occupare gli spazi delle città vecchie, oggi è la cosiddetta elites della “ZTL”, come recita uno slogan trito quanto subdolamente populista, a fare da protagonista!…
Esiste, tuttavia, una duplice polarizzazione tra città di costa e città dell’interno, tra Mediterraneo ed Europa continentale, che costituiscono un vero e proprio spartiacque all’interno di tale trasformazione urbana. Se infatti le prime, grandi e piccole città, oppure ex capitali di regni come Napoli o ex repubbliche come Genova, o la stessa Marsiglia, solo per fare qualche esempio, conservano tutt’ora nei quartieri storici un tessuto sociale popolare, formato da genti, culture diverse e attività legate al territorio, che solo in parte potremmo definire multietnico, le seconde, anticipando di almeno un decennio, la tendenza alla gentrificazione, si presentano oggi come splendide scenografie di una bellezza immobile, musealizzata. Basta osservare da vicino le principali città svizzere, austriache o tedesche che, causa la guerra, sono oggi la rappresentazione di ciò che avrebbero dovuto essere e rimanere. La bellezza come museo aperto a tutti. Gran trionfo, quindi, del turismo di massa. Un destino analogo, sebbene in ritardo sulla tabella di marcia della globalizzazione delle città, è purtroppo riservato anche alle città dell’Europa Centrale e Orientale, appartenute all’ex blocco del Patto di Varsavia, oggi, certamente, più simili alle vecchie capitali dell’Impero Austro-ungarico che alle più recenti città dell’Est. Un esempio che vale per tutte è la città di Praga, fulgido esempio di come dovrà essere la città d’arte del futuro: colorata, allegra, accogliente, disponibile, flessibile e sottomessa alle regole spietate del turismo massificato, priva, inoltre di “zone buie”, ed economicamente sostenibile. Complice, ovviamente, la sua incomparabile bellezza. Ma se di bellezza si vuole parlare, sorge inevitabilmente il confronto con Venezia, la città lagunare più a rischio di estinzione e altresì compromessa dal turismo di massa, qui giunto a livelli insostenibili. Eppure la sua natura intrinsecamente decadente e labirintica, la presenza di quartieri ancora squisitamente popolari (sestieri della Giudecca e di Castello) e di uno sbocco lagunare polimorfo e multiforme che unisce bellezza e unicità, nonostante la continua e per certi versi incomprensibile fuga dei suoi abitanti a favore della terraferma, fanno di essa l’unica città al mondo veramente a misura d’uomo. Vi è infine una immagine molto significativa, si direbbe perfino emblematica, che esprimerebbe l’idea di una contemplazione passiva della bellezza, ormai ridotta a brand turistico, rappresentata da un curioso gruppo scultoreo ad opera di Emanuele Giannelli che raffigura un gruppo di scimmie sedute sul bordo della piscina termale della cittadina di Bagno Vignoni, nel senese, dove la gentrificazione avvenuta è pressochè totale, tanto da fare rigirare nella tomba il regista Andrej Tarkovskij (1932-1986) (4), ciascuna dotata di un telefono cellulare con il quale si fanno placidamente dei selfie!…Ironia della sorte, nei centri storici, termine coniato ad hoc per evidenziarne, appunto, il carattere di spazio esclusivo, paradossale se si pensa che ad abitarvi, erano soprattutto le classi popolari, oggi si va soprattutto per mangiare e per vedere chiese e musei (almeno il 70% delle attività presenti nei centri storici è costituito da ristoranti, bar e gelaterie e boutique!) (5). Per incapsulare nella memoria una porzione anche minima di quella bellezza che non ci è dato vivere nella nostra quotidianità. Per due ragioni opposte e speculari: perché ne siamo decisamente lontani, oppure perché ne siamo così immersi che nemmeno ce ne accorgiamo.
Forse è per tutte le ragioni esposte in queste righe, che oggi i centri storici hanno perso il privilegio dell’attualità nel dibattito internazionale sull’architettura e l’urbanistica contemporanee, che si è spostato in direzione delle periferie urbane dove, forse, è ancora possibile reinventare il futuro delle prossime generazioni, ma ribaltandone il paradigma progettuale rispetto ai tristi, talora perfino devastanti esiti del passato.
Note
1. Cuore e anima del centro antico della città di Palermo, conosciuto anche come “Ottagono” e “Teatro del sole”, e in ultimo come Piazza Villena, fu realizzata tra il 1609 e il 1620 dall’architetto fiorentino Giulio Lasso.
2. Su progetto dell’architetto perugino ma da tempo operante a Genova, Galeazzo Alessi (1512-1572), la nuova strada si compose di 14 palazzi nobiliari dove ora si trovano il municipio e le principali pinacoteche della città. A renderla illustre nelle corti d’Europa fu il volume dal titolo “Palazzi di Genova”, opera del pittore fiammingo Pieter Paolo Rubens (1577-1640), pubblicato ad Anversa nel 1622. Tuttavia un’espansione su larga scala potè avvenire soltanto nel XIX° secolo grazie al progetto di addizione urbanistica progettata dall’architetto regio Carlo Barabino (1768-1835), dando vita successivamente, al rapido sviluppo della città alta di Castelletto, destinata alla borghesia, che si dotò di una vera e propria corniche panoramica.
3. Pubblicato per la prima volta nel 1884 dall’editore Treves, in esso si avverte una pietas fortissima verso le condizioni di vita disumane in cui versava il popolino napoletano, e al tempo stesso la necessità inderogabile di risanamento edilizio, ossia di demolizione di tutti gli alloggi malsani e invivibili, e offrire a queste persone alloggi più sani e civili.
4. Il regista russo vi ambientò la celebre, simbolica sequenza del film Nostalghia, 1983, in cui il protagonista attraversava l’antica vasca termale svuotata dell’acqua con un cero acceso tra le mani.
5. Un esempio significativo è purtroppo offerto dalla piazza dell’Anfiteatro a Lucca, sorta nel XIX° secolo, come piazza popolare, un tempo adibita a mercato, sulla base di un edificio ad anfiteatro di epoca romana ma oggi, letteralmente invaso da ristoranti per turisti. Un altro esempio è rappresentato dai navigli milanesi, fino agli anni settanta del secolo scorso, un quartiere schiettamente popolare. Ma a differenza della piazza di Lucca, nei navigli, in quanto regno della cosiddetta movida i giovani milanesi si mescolano con i turisti provenienti da ogni parte.
N°157 del 24/08/2023