L’ossessione del cinema per la morte di Aldo Moro

di Maurizio Fantoni Minnella

“Se ci fosse luce sarebbe bellissimo”. Con queste parole si concludeva l’ultima lettera dell’onorevole Aldo Moro durante la prigionia, rapito e giustiziato dalla Brigate Rosse il 9 maggio del 1978.

E a queste parole di speranza si ispirò idealmente Marco Bellocchio in ben due opere, la prima, Buongiorno notte, 2003, dove immaginava che Moro, finalmente liberato dalle Br dopo mesi di prigionia, se ne andasse a passeggio per Roma.

La seconda, Esterno notte, 2022, dove il regista ritorna sull’utopia del possibile rilascio del politico italiano, contrapponendolo con effetto alla cruda realtà dei fatti, ossia al ritrovamento del suo cadavere sulla famigerata Renault 4 rossa parcheggiata provocatoriamente in via Caetani, tra la sede Dc e quella del Partito Comunista, entrambi nemici acerrimi, per ragioni diverse, delle Brigate Rosse, contrarie per definizione all’idea di un compromesso con un partito ritenuto corrotto dal lungo esercizio del potere.

Ma se Buongiorno notte era pura opera cinematografica, con l’attore Roberto Herlitzka nella parte dell’onorevole Moro, l’altra è una serie televisiva Rai divisa in sei episodi di circa un’ora ciascuno. E qui sorgono le differenze, ma anche i dubbi innanzitutto sulla necessità di ritornare, da parte del regista piacentino, su una tematica e una figura politica su cui si era già detto tutto e dunque Bellocchio, che aveva già affrontato l’argomento della lotta armata nel film documentario Sogni infranti (Ragionamenti e deliri), 1995, (anch’esso un lavoro per la televisione), non solo sceglie di escludere dalla sceneggiatura qualsiasi riferimento al processo inscenato dalle Brigate Rosse nella “prigione del popolo”, già troppo visto, oltre che nel suo precedente film, anche in Il caso Moro, di Giuseppe Ferrara 1979, (con un misuratissimo Volontè-Moro), cronaca fedele e strigata dei fatti e nel film di Aurelio Grimaldi che nel titolo utilizza una variazione della frase di Moro posta all’inizio di queste righe, Se sarà luce sarà bellissimo, 2004, appunto, girato fuori dall’Italia per ragioni produttive, con un Moro interpretato dall’attore anglo-indiano Roshan Seth, ma ne mette perfino in scena un altro, che in realtà è una finzione, voluta da un sedicente regista teatrale in contemporanea al sequestro stesso. Bellocchio, da uomo di sinistra, con trascorsi maoisti, insiste nel voler identificare l’impossibile liberazione di Moro (degnamente interpretato da Fabrizio Gifuni), speranza di gran parte del popolo italiano, del Vaticano e di un’esigua fetta della Democrazia Cristiana, con la definitiva sconfitta morale ancor prima che politica di quest’ultima (gran parte di essa, a favore della linea della fermezza, temeva che il rilascio dello statista avrebbe in virtù delle sue dichiarazioni, avrebbe compromesso inevitabilmente gli equilibri e la credibilità stessa del partito) e insieme l’umiliazione del Partito Comunista, fin da subito favorevole alla cosiddetta linea dura, ma disposto perfino ad accettare un presunto riscatto per la liberazione del prigioniero, (inventato dai servizi), purchè non si sappia ufficialmente del proprio coinvolgimento, tuttavia, ben consapevole dell’interdizione di cui lo statista sarebbe stata fatto oggetto dai suoi ex amici e compagni di partito, con bene placito dei servizi segreti nordamericani.

Ma il vero nodo del film di Bellocchio è tutto nella scelta peraltro di tendenza, di diluire la tragedia del sequestro Moro e della sua triste fine in un interminabile saga dei buoni sentimenti, abilmente ed episodicamente suddivisa tra le figure del Papa (Paolo VI), della moglie di Moro (Eleonora Chiavarelli) e l’allora ministro dell’interno Francesco Cossiga (dallo stesso Moro definito un soggetto bipolare!). Dall’altra parte, i dubbi e le contraddizioni dei due brigatisti più fragili, successivamente pentiti: Valerio Morucci e Adriana Faranda. Per ognuna di esse riserva uno scandaglio psicologico da interminabile saga, soffermandosi su dettagli alquanto insignificanti, tali da suscitare facile commozione, concedendosi imbarazzanti ripetizioni come la ricerca del cadavere di Moro in un lago vicino a Roma, ma tuttavia restando fedele alla propria tesi della trattativa/liberazione, ma anche rifiutando di allinearsi con la consueta vulgata giustizialista e forcaiola anti Br, non rinunciando alla propria vocazione d’autore attirato dal sogno e dalla follia, insomma realizzando un’opera dove stile e racconto danno la misura della contraddizione tra cinema e serie televisiva. Del cinema come arte della sintesi, per eccellenza, novecentesca. Della serie, al contrario, come dispersione, contemporanea incarnazione del feuilleton ottocentesco. Infine, che dire della gloriosa Internazionale, cantata dai brigatisti in gabbia e amplificata come commento sonoro a suggello del malinconico ricordo di un cineasta enfant prodige, maoista, ma oggi, anch’egli in ossequio al mercato, diviso, ormai, tra cinema, televisione e piattaforme digitali?

 

‍N°148 del 20/07/2023

fondazione nenni

Via Alberto Caroncini 19, Roma www.fondazionenenni.it

Rispondi