L’aumento dell’età pensionabile, crisi del Welfare State e programmazione strategica

di Davide Passamonti

Il Welfare State è nato e si è consolidato sui caratteri della società capitalista e industriale. Questo tipo di società ormai, nei caratteri della modernità – del post-capitalismo – è superata da profondi cambiamenti “strutturali” che stanno modificando le basi ideate per la gestione di politiche sociali “novecentesche”.

L’aumento delle aspettative di vita e l’ “invecchiamento” della popolazione

Una delle principali sfide delle società odierne riguarda “l’invecchiamento della popolazione”; ovvero l’aumento relativo rispetto al totale della popolazione – o della popolazione attiva – degli anziani. Fenomeno che riguarda tutti i paesi industrializzati, non solo occidentali. Le cause principali sono: denatalità e aumento della speranza di vita. La popolazione europea, ad esempio, sta invecchiando e questo è dimostrato dall’aumento della quota della popolazione anziana. Nel 2020 il 21% della popolazione aveva 65 anni e più, rispetto al 16% del 2001, con un aumento di 5 p.p. Osservando gli over 80 la loro quota è quasi del 6% nel 2020 mentre era del 3.4% nel 2001, il che significa che la loro quota è quasi raddoppiata durante questo periodo. D’altra parte, la quota dei giovani (da 0 a 19 anni) nell’UE era del 20% nel 2020, una diminuzione di 3 p.p. rispetto al 23% nel 2001. Passando ai bambini e agli adolescenti, la loro quota nella popolazione dell’UE è diminuita negli ultimi due decenni. Nel 2020 il 15% della popolazione aveva meno di 14 anni, rispetto al 17% del 2001, una diminuzione di 2p.p. Per quelli tra i 15 e i 19 anni, la quota era del 5% della popolazione dell’UE nel 2020, rispetto al 6% nel 2001, un calo di 1 p.p.

Una popolazione sempre più anziana, infatti, fa lievitare i costi del sistema previdenziale e dei vari sistemi sanitari nazionali. Inoltre con la diminuzione della popolazione attiva, il numero di contribuenti cala e la fiscalità generale si addossa un peso che non può più sopportare. L’invecchiamento della popolazione insieme ai trasferimenti sociali, in aumento, verso gli inattivi hanno portato un assorbimento proporzionale del PIL a favore di questi ultimi sempre più importante.

L’aumento dell’età di pensionamento

E’ ormai notizia quotidiana, o quasi, quella delle proteste – anche violente e continuative – in Francia a seguito della riforma delle pensioni voluta dal Presidente Macron riguardante l’innalzamento dell’età minima pensionabile da 62 a 64 anni. La necessità della riforma deriva dal fatto che permetterà di migliorare il saldo del sistema pensionistico di 6,2 e 11,8 miliardi di euro netti rispettivamente nel 2027 e nel 2030, fino a raggiungere in quest’ultimo anno la piena sostenibilità del sistema. Il caso francese è solo l’ultimo in ordine temporale di “riforma delle pensioni”. Tutti i paesi occidentali l’hanno affrontata e l’hanno motivata come necessaria per la salvaguardia dei conti dello Stato.

In seguito all’aumento delle aspettative di vita, quindi, rimanere in età attiva più lungo diventa essenziale per evitare che il sistema previdenziale divenga sempre più oneroso per i conti dello stato. Non considerando, però, che una maggiore permanenza in età attiva delle generazioni più “anziane” non permette un ricambio efficace nel mercato del lavoro; così da consolidare una disoccupazione strutturale tra le fascie più giovani e una loro emarginazione sempre più sostanziale.

La crisi del Welfare State come crisi di sistema

La stortura sociale generata con l’aumento dell’età pensionabile dimostra una carenza strutturale nel modo in cui si concepisce il “sistema paese”, cioè lo Stato. Nonostante i continui tentativi dei governi di evitare un continuo peggioramento nel bilancio sociale – tra anziani e giovani, tra attivi e inattivi, ecc – la “coperta” risulta sempre insufficente. Il continuo immettere nel sistema di nuova liquidità finanziaria, con politiche di deficit-spending, non porta ad un aumento reale della dimensione della “coperta” ma genera debito pubblico o inflazione annullando, così, i potenziali benefici dell’aumento di liquidità.  Ma nenche le politiche contrarie, ovvero tagliando la spesa, allo scopo di raggiungere il dogma del “pareggio di bilancio” porta benefici sociali apprezzabili; anzi, i danni di una possibile recessione economica sono ben superiori.

I “margini” per attuare le classiche vie di crescita economica – fordismo o keynesianismo – non esistono più; dato che i cambiamenti in atto, dalla società industriale a quella post-industriale, non li prevedono. Oggi ci sono evidenti segni di «de-industrializzazione» soprattutto sul versante della struttura occupazionale del lavoro e sulla struttura qualitativa dei consumi. Man mano che la spesa pubblica aumenta, lo Stato appare sempre più come il responsabile del disordine economico e lo è tanto più quanto più aumentano i costi della redistribuzione e dei servizi pubblici. E date le dimensioni incontrollate si generano “sprechi pubblici” di risorse economiche che vengono assegnate “dove non servono” e non vengono investite dove, invece, ve né bisogno.

Inoltre, quando la spesa pubblica si fa “eccessiva” superando soglie non più controllabili gli effetti redistributivi vengono ridimensionati notevolmente. La spesa si concentra intorno ai gruppi sociali più organizzati e, di conseguenza, i servizi generati dalla spesa finiscono per rafforzare questi gruppi “forti” – dirigenti, gruppi professionali o classi medie e alte – penalizzando, invece, le fasce più “deboli” notoriamente meno capaci di organizzarsi e di competere a livello sociale. Quindi, questo meccanismo di “oligopolio sociale” diventa l’artefice di ingiustizie sociali nei confronti degli emarginati e dei più deboli proteggendo maggiormente i gruppi organizzati.

La programmazione (pianificazione) strategica come soluzione alla crisi del Welfare State

I cambiamenti strutturali in corso – dalla «de-industrializzazione» alla «terziarizzazione» – sono la causa della crisi, come si è detto, della finanza pubblica e dello Stato sociale odierno. Sommati ai cambiamenti sociali “strutturali”, come la progressiva diminuzione della base lavorativa e l’aumento costante della popolazione anziana, la pressione sulla sostenibilità del sistema previdenziale (il numero di pensionati supererà quello degli occupati già nel 2035) e di quello sanitario (con un raddoppio dell’onere in capo al singolo lavoratore entro il 2050) è diventato ormai intollerabile e incontrollabile.

Fordismo e keynesianismo hanno, infatti, dimostrato tutti i loro limiti nella gestione e nel risolvere i problemi di bilancio pubblico. Ciò che, invece, oggi serve è un metodo “nuovo” di gestione e organizzazione della finanza pubblica.

Lo Stato realmente «democratico», deve invece ricercare un protagonismo autonomo. E, per fare ciò, non dovrebbe «aspettare» che i meccanismi spontanei del mercato producano delle «realtà» da gestire – nel bene e nel male – ma dovrebbe incominciare a governare questi meccanismi per orientarli nell’interesse della sovranità popolare e politica.

Da molto tempo questo tipo di gestione preventiva dello sviluppo sociale ha un nome: si chiama «pianificazione». […]

D’altra parte, come «riparatore» lo Stato si sta dimostrando sempre più incapace di raggiungere un controllo efficace dei più importanti fattori di «crisi»: disoccupazione, deficit pubblico e cos’ via. E ciò perchè non è ancora in grado di conoscere dettagliatamente, prima ancora di pensare di governarli, i fattori di interrelazione fra i vari fenomeni economici, e non è in grado di simulare adeguatamente la loro operatività a fini e in sede di controllo e di decisione pubblici. […]

La pianificazione pertanto rappresenta un modo di controllare il funzionamento «invisibile» del mercato, rendendolo visibile e determinabile «a priori»,in ragione di scelte negoziate – dietro sponsorizzazione dello Stato – fra gli operatori istituzionali, e ciò attraverso un controllo preventivo (ex ante e non ex post) delle diverse transazioni di cui si compone il processo economico, e dei loro effetti. [Archibugi, 2002 p. 379 – 380 – 381]

La pianificazione è una disciplina che addestra all’impiego di metodi mirati a migliorare la razionalità delle decisioni (o azioni) nella gestione sistematica e integrata degli affari pubblici. Essa parte dalla definizione dei programmi. Il “Programma” diventa il punto di riferimento di ogni azione della PA, da qualsiasi parte, con qualsiasi ente e in qualsiasi settore essa operi e si sviluppi.

Ogni azione o progetto di riforma deve passare dalla programmazione. Programmazione e gestione diventano quindi movimenti di un unico agire suggellati dalla valutazione.

La pianificazione strategica nasce sull’opinione diffusa che la crescita del settore pubblico dell’economia debba misurarsi con la capacità di conservare e di migliorare i suoi livelli di prestazione (performance) e che perciò si debbano trovare gli adeguati strumenti di valutazione di queste prestazioni pubbliche.

L’allocazione delle risorse, quindi, deve essere decisa con un Quadro programmatico nel quale si esprime la destinazione nominale monetaria delle risorse stanziate e si informa degli impieghi reali, in termini di azioni, prestazioni e servizi di tali risorse. Ciò che occorre per realizzare questo nuovo metodo è una radicale riforma del modo di concepire e formulare le preferenze politiche [Archibugi, 2005].

In questa direzione l’amministrazione federale statunitense, a partire dal 1993 con legge del Congresso (Government Performance and Result Act-GPRA), ha portato le agenzie federali sul binario della programmazione strategica. I programmi agiscono in base a piani strategici almeno su base quinquennale, su cui si generano piani annuali con target temporali precisati e annessi Rapporti di performance annuali; a ciò si aggiunge il “Bilancio di performance”, strumento di controllo annuale di spesa pubblica. Il “piano annuale di performance”, prescritto dalla legge GPRA, entra come elemento preponderante nel Bilancio preventivo annuo della singola Agenzia, presentato poi dalla Casa bianca al Congresso durante il procedimento standard di autorizzazioni annue del Bilancio federale. L’autorizzazione preventiva del bilancio annuo viene quindi data insieme alla concreta cognizione e valutazione dei risultati quantitativi che nell’anno precedente si sono raggiunti e conseguiti nel programma pluriennale strategico, e alla capacità  dimostrata dall’Agenzia di conseguire risultati reali, con la sua azione e i soldi ricevuti.

Bibliografia:

– Archibugi F. (2002), L’economia associativa, Sguardi oltre il Welfare State e nel post-capitalismo, Edizioni di Comunità, Torino.

– Archibugi F. (2005). Introduzione alla pianificazione strategica in ambito pubblico, Firenze: Alinea editore.

– Archibugi F. (2005), Dal Welfare State allo Stato Programmatore, (Saggi, pp-55-61).

– Istat (2020), Una popolazione che invecchia, Roma, Istat.

– Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (2023), Francia: muro contro muro sulle pensioni, Milano, ISPI.

– Tortuga (2023), Cosa ci può insegnare la riforma delle pensioni in Francia, Roma, il Sole 24ORE.

– Ruffolo G. (1985), La qualità sociale. Le vie dello sviluppo, Bari, Laterza.

– Employment and Training Administration(1993), Government Performance and Result Act-GPRA, Washington, U.S. DEPARTMENT OF LABOUR.

– Welfare, Italia (2022), Welfare Italia Forum 2022, Roma, Palazzo Brancaccio.

 

 

 

N°141 del 03/07/2023

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