La malattia come via per ritrovare l’equilibrio perduto

di Luca Giammarco

Una raccomandazione: vorrei che queste mie righe non venissero interpretate in modo specifico facendo appello a casi singoli magari vissuti in prima persona. Lavorando in ambito medico, sono a contatto con la malattia e tutto quel che ne consegue – ansie, paure, angosce e preoccupazioni – quotidianamente. E mai mi permetterei di dimenticare il lato umano della malattia.

È proprio in virtù di questo lato umano che ho deciso di parlarne.

Partirei, però, da una distinzione essenziale: per malattia si intende – e cito dal Dizionario etimologico Treccani – una “condizione abnorme e insolita di un organismo vivente, animale o vegetale, caratterizzata da disturbi funzionali, da alterazioni o lesioni – osservabili o presumibili, locali o generali – e, nel caso di animali a elevata organizzazione nervosa, da comportamenti inconsueti riconducibili a sofferenza psicofisica (nel caso specifico dell’uomo si considera la mutata percezione dello stato del proprio corpo, o cenestesi, che può assumere l’intensità dell’allarme da pericolo per la sopravvivenza); in senso più strettamente fisiopatologico, si intende per malattia un’alterazione transitoria e reversibile (almeno entro limiti che consentono di sopravvivere a soggetti non più capaci di guarire, quali anziani, lungodegenti, affetti da malattie terminali) concernente quei processi fisico-chimici, detti omeostatici, attraverso i quali l’organismo preserva la propria individualità in equilibrio dinamico con l’ambiente, e il cui fattore scatenante può essere occasionale, ambientale o interno all’organismo, nonché di natura fisica, chimica, organica, ereditaria o psicosomatica (la reversibilità, almeno parziale, e la transitorietà della malattia si precisano in contrapposizione allo stato patologico che risulta invece irreversibile)”.

Troppo spesso vengono usati come sinonimi tra di loro malattia e patologia. Un errore imperdonabile, alla luce di quanto citato.

Cosa vuol dire, dunque, essere malati? Sotto un profilo etimologico, lo si è appena visto. Sotto un profilo medico, lo sappiamo: avere dei sintomi fastidiosi che, grazie a cure appropriate, nel giro di pochi giorni scompaiono.

Da un punto di vista umano? Cosa vuol dire “essere malati” sotto un profilo umano?

A mio avviso, è il tentativo che il nostro corpo biologico – tempio sacro di qualcosa ben più profondo e non tangibile fisicamente – cerca di dare come risposta a condizioni esistenziali difficili di fronte alle quali si arretra, ci si blocca, si cessa di esistere. Provocatoriamente si può dire che la malattia insorge perché l’imperativo principale è vivere.

Pertanto, quando appare una malattia (e non una patologia, attenzione!) sarebbe opportuno dare ascolto al tipo di blocco energetico che ci viene comunicato attraverso il corpo – che sia ansia, gastrite, insonnia, astenia, depressione, apatia, rabbia, o qualsiasi altra cosa: non importa! –, risalire alla causa ed avere il coraggio di cambiare la situazione in essere.

Questo, mi sento di dire in termini scientifici e non scientisti, il compito della malattia: rendere cosciente l’essere umano di dover, ogni istante, ripartire dal corpo “materiale” per ritrovare quell’equilibrio profondo che, per mille e più motivi, è stato compromesso se non del tutto eliminato.

Rivalutare la malattia in questi termini, vuol dire anche farne esperienza in modo diverso.

Non a caso gli sciamani d’America sostenevano che per guarire qualcuno da una malattia era necessario portare la sua anima altrove, farle fare esperienze diverse di modo che, tornando in quel corpo, la malattia sarebbe dovuta andare via perché non riconosceva più quell’individuo che aveva infettato.

Si può credere o non credere. Si può mostrare scetticismo e bollare questo mio modestissimo ragionamento come sciocco e privo di fondamenti scientifici.

Resta il fatto che è la parola stessa a suggerire la via da percorrere per essere correttamente compresa (lo abbiamo visto riportando quanto detto nel Dizionario etimologico Treccani).

Questo, sia chiaro, non vuol dire: evitare di curarsi. Semmai vuol dire: curarsi sapendo anche – e soprattutto – cosa cambiare di noi e cosa migliorare di noi per riacquisire quell’equilibrio perduto che ci faceva e ci fa essere autenticamente umani.

 

N°139 del 30/06/2023

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