di Maurizio Fantoni Minnella
Tra le molteplici e nefaste conseguenze del cambiamento climatico a cui assistiamo con sempre maggior timore, ve n’è una non meno grave sebbene, apparentemente contenibile entro una gestione pubblica micro-territoriale, ossia quella del taglio indiscriminato degli alberi non solo all’interno dello spazio urbano ma anche in quello più esterno, periferico e perfino rurale. Si tratta di una deriva preoccupante basata su due elementi: il timore indotto dai sempre più pressanti rovesci atmosferici di vasta portata e sul senso di emulazione, tra i peccati capitali più gravi di questo paese. In tale prospettiva vi è pure ormai evidente una coincidenza tra interesse pubblico e interesse privato. Se ad esempio, un privato inoltra una domanda di abbattimento di un albero secolare che può essere un cedro, un abete, un faggio o un tiglio, messo a dimora un secolo prima o poco meno, per ragioni di sicurezza ma nella maggioranza dei casi per un motivo assai più futile, quello individualista della riprogettazione del proprio giardino secondo la moda corrente di una stile neutro e spoglio, nella stragrande maggioranza dei casi gli verrà concessa l’autorizzazione al taglio radicale, ovvero la cancellazione definitiva del vegetale. Al contrario e al tempo stesso, specularmente, la motivazione che di solito viene addotta per procedere all’abbattimento di alberi di proprietà pubblica, è la sicurezza dei singoli cittadini e prevalentemente delle loro automobili, preziosi e insostituibili beni di consumo privati.
Da troppo tempo, ormai, assistiamo, indignati e inermi, all’abbattimento sconsiderato, improvviso, quindi nemmeno annunciato dalle autorità preposte, di specie vegetali di rilevante importanza, sia come singolo esemplare che come gruppo (come non di rado accade, ad esempio, con filari di tigli o di platani centenari caratterizzanti taluni paesaggi e passaggi urbani), senza poter fare nulla per impedirlo. Tutto questo pone, innanzitutto, al centro una questione squisitamente politica, ossia dell’esclusione sistematica della cittadinanza alla partecipazione attiva e quindi critica alle scelte delle singole amministrazioni pubbliche in materia di ambiente urbano. Lo scopo di quest’ultime, quasi sempre quello di porre i cittadini di fronte al fatto compiuto, interdicendo qualsivoglia intervento preventivo anche da parte di esperti professionisti agronomi o botanici svincolati da responsabilità pubbliche. Si continua a rifiutare non solo il parere dei cittadini ma anche associazioni ambientaliste (magari in prima fila ma con risultati quasi sempre inferiori alle aspettative e allo sforzo dimostrato), di architetti del paesaggio il cui parere potrebbe costituire una garanzia per la difesa del paesaggio e dell’ambiente nel suo significato più ampio. E’ come assistere al proliferare di un’epidemia pianificata dall’alto le cui cause, come quella più diffusa della legittima sicurezza dei cittadini, possono trasformarsi in un pretesto per intervenire sul paesaggio urbano con nuovi e lucrosi progetti finanziati che troverebbero un solo ostacolo alla loro realizzazione, ossia gli alberi che c’erano prima di noi, robuste sentinelle del tempo trascorso. Parliamo di nuove piazze della cui realizzazione non si sentiva affatto la necessità oppure di opere di restilying di pavimentazioni urbane che sarebbero ormai compromesse dalla presenza di radici profonde degli alberi preesistenti. Spesso assistiamo impotenti perfino al consenso regalato dalle diverse soprintendenze alle pubbliche amministrazioni nel cui ambito si mettono periodicamente a bilancio abbattimenti di alberi, drastiche riduzioni del patrimonio arboreo esistente. Se per esempio, il privato è generalmente incline a non comprendere il fatto che la salvaguardia del proprio patrimonio naturale sia una garanzia per la conservazione del paesaggio urbano nella sua totalità, ovvero dell’unione di pubblico e di privato, è dalle amministrazioni pubbliche che ci si aspetterebbe una maggiore attenzione alla memoria storica del territorio con i suoi manufatti materiali e naturali e invece, paradossalmente, è da esse che tenderebbe ad essere compromesso. Ma quanti alberi di antica piantumazione si rivelano affetti da malattie irreversibili dovute all’invecchiamento, tali da giustificarne un taglio radicale? Una minoranza rispetto al numero degli esemplari che ogni anno vengono abbattuti. Vale inoltre ricordare che ad accelerarne l’eventuale fase terminale è spesso il soffocamento delle radici dovuto alla presenza del cemento specialmente nelle piantumazioni a filare, tanto da poter affermare che la cementificazione delle città passa anche attraverso la pressione sulle radici degli alberi che di esse sono ornamento ed elemento vitale. Ma già la malattia dell’albero presa a pretesto o addirittura amplificata in seguito a rilievi è ormai diventata la foglia di fico dietro cui nascondere una furia demolitrice inedita, presente in tutto il paese ed anche nella piccola e ricca città verde, che godette perfino dell’appellativo di “città giardino”, da dove nascono queste pagine scritte, pari solo all’ipocrisia e all’ottusità dei suoi principali attori. E sbaglierebbe chi volesse ridurre il fenomeno a singoli casi isolati, al contrario vi è una matrice che li accomuna tutti, secondo la quale l’albero secolare ormai sarebbe diventato un ostacolo “ad un sano sviluppo delle città” e non un valore da custodire per l’uomo e il suo ambiente. Una deriva che vorremmo non fosse inevitabile, pur sapendo che nell’immaginario collettivo della maggioranza dei cittadini, l’importanza di un albero non è minimamente paragonabile, ad esempio, a quella di un parcheggio!…Pare, infine, evidente che tale deriva destinata a compromettere in maniera significativa l’immagine che ci è stata tramandata dal passato, a meno che non venga sostituita da una nuova progettualità consapevole della natura stessa del paesaggio, il suo genius loci, non sarà destinata a trovare comunque significative opposizioni nemmeno negli stessi cittadini, per natura inclini a non avere una visione d’insieme ma piuttosto parcellizzata, relativa al proprio orizzonte chiuso. Si tratta pur sempre di una miopia congenita nell’uomo moderno e urbanizzato superabile attraverso l’educazione all’ambiente umano e alle sue complesse dinamiche, ossia ad un’attenzione che non si limiti alle semplici finalità personali quotidiane ma che, al contrario, si sforzi di allargare i propri orizzonti allo spazio che tutto contiene in un insieme di relazioni tra, forme, oggetti, luoghi, individui in cui nessuno dovrà sentirsi escluso. Ed è proprio su questo passaggio che la politica ha finito per smarrire la propria funzione di mediatrice tra il singolo e la comunità, l’organizzazione sociale, in una prospettiva di un cambio radicale di paradigma e di prospettiva culturale nell’accezione più ampia che nel sovvertire le abitudini quotidiane del cittadino, ne avvii la lenta, difficile ma inevitabile trasformazione senza la quale non ci sarà futuro per le città.
N°134 del 20/06/2023