L’assenza della programmazione come ingiustizia nella distribuzione sociale del benessere

di Davide Passamonti

Negli ultimi decenni, contemporaneamente a un continuo aumento di spesa, sono cresciuti anche l’insoddisfazione, il disagio e il malessere per il settore pubblico e per il Welfare State, con il quale si identifica, tanto da parlare di crisi.

I fattori di crisi posso essere ricondotti a tre situazioni: limiti finanziari; mancanza di efficienza, efficacia e di misura delle prestazioni; disaffezione degli utenti. La somma di questi fattori, inevitabilmente, mette in discussione il motivo fondante dello Stato di benessere: la sua equità o giustizia sociale.

L’intervento statale nell’economia di mercato è stato uno dei motivi primari di sviluppo e di generalizzata protezione sociale per la popolazione degli stati democratici occidentali. Per un certo periodo storico, la spesa pubblica ha contribuito a combattere le diseguaglianze in maniera determinante; salvaguardando anche la crescita dell’economia di mercato. Ma, negli ultimi decenni, segni sempre più evidenti dimostrano un trend contrario. Un continuo aumento della spesa pubblica, spesso a debito, comporta un aumento delle diseguaglianze sociali.

Per comprenderne le cause bisogna distinguere gli effetti della spesa pubblica in due situazioni differenti:

  • quando la protezione sociale si rivolge a una platea ristretta;
  • quando la protezione è diffusa e generalizzata.

Nel primo caso, i trasferimenti pubblici – nell’insieme dell’economia di un paese – presentano «costi ridotti e benefici elevati»[1]. I finanziamenti pubblici favoriscono la crescita; il meccanismo economico può essere descritto come quello di “efficiente in senso paretiano”: non è possibile accrescere il benessere di alcuno, dei soggetti coinvolti, se non riducendo il benessere di qualcun altro di loro.

Nel secondo caso, invece, «man mano che quote crescenti della popolazione entrano nel raggio della protezione, i costi aumentano e i benefici si riducono. Tutti ricevono e tutti pagano: il bilancio è molto meno chiaro»[2]. Contesto tipico delle società odierne, lo strumento della finanza pubblica genera i problemi di welfare sopra citati.

La crisi del Welfare State

I fattori di crisi dello Stato di benessere, quindi, sono: i limiti finanziari; la mancanza di efficienza, efficacia e di misura delle prestazioni; la disaffezione degli utenti.

A livello strutturale ed economico i paesi ad “industrializzazione avanzata”, oggi, presentano caratteristiche non paragonabili rispetto al boom economico degli anni Sessanta.

Ne deriva l’insostenibilità di incrementare la produttività con l’aumento della spesa pubblica; i “margini” per attuare le classiche vie di crescita economica – fordismo o keynesianismo – non esistono più. Oggi, infatti, ci sono evidenti segni di «de-industrializzazione» sul versante della struttura occupazionale del lavoro e sulla struttura qualitativa dei consumi[3] tanto da definire la società odierna come post-industriale.

«Il mantenimento di una domanda globale elevata non produce una maggiore produttività, a causa del fatto che la domanda stessa non è orientata verso prodotti di “massa”, bensì verso prodotti di “qualità” e verso servizi con un tasso di produttività assai basso, se non nullo, come appunto i servizi dello Stato»[4].

Come già affermato, quando la spesa pubblica si fa “eccessiva” superando soglie non più controllabili gli effetti re-distributivi vengono ridimensionati notevolmente. La spesa si concentra intorno ai gruppi sociali più organizzati (dirigenti, gruppi professionali o classi medio/alte) e, di conseguenza, i servizi pubblici finiscono per rafforzarli penalizzando, invece, le fasce sociali meno capaci di organizzarsi e di competere socialmente. Quindi, il meccanismo di “oligopolio sociale”[5] diventa l’artefice di ingiustizie ampliando le differenze tra i benestanti (protetti) e gli emarginati (non protetti). Questa continua “tensione sociale” sulla redistribuzione, infine, si scarica “esternamente” alla lotta politica in termini di inflazione o di riduzione dei “margini” disponibili per le categorie emarginate.

«Il miglior modo per controllare l’efficienza e/o l’efficacia del servizio pubblico è dunque quello di controllare e dirigere le sue performances, le sue prestazioni, in ogni direzione. Ma è difficile applicare appropriati metodi di misurazione e di valutazione a queste prestazioni, se esse non sono analizzate, definite, giustificate in un chiaro sistema di obiettivi, legati a un’analisi dei modi migliori e auspicabili per conseguirli e al concatenato sistema di mezzi e risorse necessari per realizzarli. Tutto ciò si chiama pianificazione strategica»[6].

Infine, l’espansione economica statale è alla base della burocratizzazione della pubblica amministrazione; e quest’ultima è causa di opacità nel processo politico democratico, cioè non genera partecipazione attiva. Anzi, genera una partecipazione passiva da parte dei gruppi sociali nella proliferazione di istanze rivendicative e un distacco tra lo Stato inteso come “società politica” e la società civile. Lo Stato viene, quindi, avvertito come distante, estraneo, inefficace e inefficiente, e persino ostile; generando una crescente antipatia e disaffezione politica. Tuttavia, chi riesce a trarre vantaggio da questa situazione sono sempre i gruppi sociali più agguerriti. Emergono, infatti, ineguaglianze informative, nelle relazioni sociali, nell’influenza politica e nel tempo disponibile avendo accesso avvantaggiato nell’uso delle risorse pubbliche. «La pretesa di estendere l’eguaglianza si traduce in iniquità: assicurare l’eguaglianza attraverso la gratuità e l’uniformità conduce infatti a conseguenze regressive»[7].

Ciò che bisogna, però, ricordare è che se si contestano i fallimenti dello Stato non vuol dire che la via da percorrere è quella del mercato. Occorre invece una profonda riforma sia dello Stato sia culturale proponendo soluzioni non ideologiche ma pragmatiche: ristrutturazione della spesa di welfare (sociale, sanitaria, previdenziale); riduzione dei costi burocratici e indirizzare la spesa pubblica verso le categorie più deboli, riducendo la protezione alle altre categorie. Questa riforma si chiama programmazione socio-economica.

L’opzione programmatica

Il dibattito sulla programmazione non deve ricadere nella classica e stantia diatriba tra Stato e mercato. Ovvero, tra l’opzione liberista dello Stato minimo e l’opzione socialdemocratica dello Stato massimo; ma deve essere orientato su “quanto mercato o quanto Stato” serve in un determinato ambito, coerentemente agli obiettivi strategici di sistema pianificati “ex-ante”: cioè, l’opzione programmatica.

Quest’ultima alternativa, infatti, differentemente alle prime due è in grado di generare un sistema sociale che assicura contemporaneamente tre esigenze fondamentali: «quella di proteggere integralmente i più bisognosi; quella di assicurare ad essi un’ampia libertà di scelta minimizzando i costi e arbitri burocratici; quella di garantire comunque un certo volume di servizi e di prestazioni sociali di emergenza a tutti i cittadini»[8].

L’obiettivo della programmazione è, cioè, quello di socializzare la spesa sociale. Ovvero, garantire i diritti fondamentali e le prestazioni sociali essenziali a tutti i cittadini liberalizzando, però, l’offerta di servizi sociali, non più monopolio di Stato, in un mercato del benessere formato da imprese pubbliche o private, associazioni ed enti del Terzo Settore in libera competizione tra loro.

Il ruolo dello Stato diviene, quindi, quello di controllo di ultima istanza degli obiettivi economici e sociali predisposti dalla programmazione.

 

 

[1]      Ruffolo G. (1985), La qualità sociale. Le vie dello sviluppo, Bari, Laterza.

[2]      Ruffolo 1985.

[3]      Archibugi F. (2002), L’economia associativa, Sguardi oltre il Welfare State e nel post-capitalismo, Edizioni di Comunità, Torino.

[4]      Archibugi 2002.

[5]      Ruffolo 1985.

[6]      Archibugi 2002.

[7]      Lepage H. “Demain le capitalisme” in Ruffolo 1985.

[8]      Ruffolo 1985.

 

N°126 del 08/06/2023

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