La comunicazione in ambito medico

di Luca Giammarco

Non più tardi di qualche settimana fa, c’è stata la giornata dedicata alla comunicazione. Nel mondo in cui viviamo, nella società dove operiamo e siamo inseriti, una ricorrenza così è davvero importante, e ciascuno nel proprio ambito è tenuto a dare il suo contributo in termini di riflessione. Operando ogni giorno in ambito medico, cercherò di chiarire – nei limiti delle mie competenze – che cosa si intende per “comunicazione”, e quindi “comunicare”, nel contesto socio-sanitario.

Ho usato il termine “socio-sanitario” perché indica, seppure in modo un po’ asettico, gli elementi basilari di una comunicazione medica: il rapporto fra il dottore specialista e il suo paziente. Senza questi due elementi, è impossibile parlare di comunicazione (e questo vale per qualsiasi contesto).

La filologia non è il mio campo e io sono l’ultimo a poter dire, in modo esaustivo, qual è il significato originario del termine “comunicare”. Ma non ho scappatoie. “Comunicare” vuol dire mettere in comune. Cosa, esattamente? Ciò che prima era ignoto e che, una volta comunicato, inizia a diventare familiare. E se non proprio familiare, almeno non più così oscuro.

Faccio un esempio per chiarire: leggo un articolo scientifico che molti non conoscono. Ne parlo attraverso tutti i mezzi a mia disposizione – i social, il telefono, la semplice chiacchierata al bar con gli amici. In questo modo sto comunicando una serie di informazioni che gli altri ignoravano e che ora, grazie a me, conoscono e che, se lo vorranno, potranno approfondire o semplicemente accantonare in qualche parte della memoria per poi ritirarle fuori se ve ne sarà occasione.

In ambito medico avviene la stessa cosa?

Quando ci rechiamo da un dottore perché abbiamo un disturbo fisico che ci perseguita da un po’ di tempo, noi pazienti – anche i dottori sono pazienti a loro volta – che cosa chiedono, sebbene implicitamente? Sapere cos’hanno e poi come fare per guarire. Ma la seconda fase, quella della guarigione, è già di tipo operativo che esula dalla comunicazione vera e propria.

Il punto è: per un medico cosa vuol dire comunicare? Spiegare un certo tipo di patologia? Illustrare le ragioni di una cura? Fare delle previsioni? Dare delle certezze?

Tutto questo, per dirla in modo semplice anche se può apparire brutale, è quello che un paziente si aspetta che avvenga e che nutre come speranza inconfessata.

Ma in ambito medico, comunicare vuol dire ben altro.

Un dottore che si trova un insieme di sintomi da analizzare, o delle analisi da leggere, deve comunicare con il paziente – certamente! – ma non in termini di spiegazione. Tutto questo, semmai, avviene dopo.

Un sintomo, un insieme di sintomi, una serie di analisi trasmettono delle informazioni attraverso un codice che il medico sa decifrare. Ma “decifrare”, nell’ambito al quale mi riferisco, non vuol dire comunicare. Perché a quell’insieme di dati o di sintomi bisogna, innanzitutto, dare un nome specifico.

Ed eccoci al punto: in medicina, “comunicare” vuol dire “nominare”.

Dare un nome, in questo caso, significa escludere una serie di possibilità ed individuarne una specifica. È grazie a questo atto di delimitazione che sarà possibile capire quali cure somministrare al paziente e le effettive possibilità di guarigione.

Ma se prima non si dà un nome ai sintomi raccontati nel dialogo cosiddetto anamnestico, o alle analisi che i pazienti portano, non solo non vi alcuna possibilità di cura, ma neppure si potrà parlare di un vero e proprio rapporto comunicativo socio-sanitario.

Ecco che, contrariamente a quanto pensano in molti, la comunicazione in ambito medico è meno complessa. Semplicemente, ma non banalmente, perché passa attraverso un atto nominativo.

Esiste una determinata patologia quando è possibile nominarla al paziente. Ciò vuol dire che la si è individuata e, quindi, che si è individuato – o anche solo ipotizzato – un determinato tipo di percorso di guarigione (secondo i casi, ovviamente).

Tutte le spiegazioni riguardanti la patologia, verranno solo dopo l’atto del nominare. Guai se avvenisse il contrario.

Nominare, quindi riconoscere, capacità di individuare ciò con cui si ha a che fare. Trasmettere tutto questo al paziente non vuol dire solo renderlo cosciente di un certo stato di cose che sta avvenendo nel suo corpo e di cui prima non era consapevole; significa anche proiettarlo dentro un percorso di cura che, in base alla gravità ed alla effettiva curabilità della patologia, renderà più stretto, ma mai in termini di dipendenza, il rapporto con il suo medico.

L’arte della nomenclatura dunque, almeno nel contesto socio-sanitario, non è un’operazione di banalizzazione di qualcosa di infinitamente più complesso. Bensì rientra in quel mettere in comune – da cui “comunicare” – una certa specificità per eliminarla del tutto o, nei casi peggiori e non gravissimi, limitarne i decorsi invalidanti e irreversibili.

Ecco come da un semplice atto come il “nominare” un intero universo si apre: quello della scienza e del corpo umano come tempio sacro ricco di infinite possibilità.

I miracoli della comunicazione: è proprio il caso di dirlo (almeno in ambito medico).

 

N°122 del 31/05/2023

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