Il nuovo paradigma internazionalista

di Davide Passamonti

Definirsi europeisti o internazionalisti sembra essere oggi più semplice rispetto al passato. Ma le apparenze ingannano.

La globalizzazione è una realtà economica e sociale se paragoniamo le differenze socio-economiche odierne con quelle del secolo scorso. I costumi, le tendenze sociali, la comunicazione, da una parte, e l’unificazione dei mercati a livello globale, dall’altra, hanno spinto verso modelli di consumo e di produzione più uniformi e convergenti.

Grazie alle nuove tecnologie – specie nel campo delle comunicazioni (da internet ai social media) –  da un lato, si assiste a una progressiva omogeneità nei bisogni e alla scomparsa delle tradizionali differenze tra i gusti dei consumatori a livello nazionale o tra regioni del mondo; dall’altro, le imprese sono in grado di sfruttare rilevanti economie di scala nella produzione, distribuzione e vendita dei prodotti e praticare politiche di bassi prezzi per penetrare in tutti i mercati.

Indubbiamente, la globalizzazione è un fenomeno con tanti aspetti positivi di sviluppo economico e sociale. Ma bisogna interpretarla nella sua dinamica di trasformazione radicale delle società data dall’utopia internazionalista (o globalista) dello “Stato mondiale” – pena il fallimento ideale della globalizzazione.

Le crisi internazionali frequenti sono la prova più evidente delle resistenze dei vari Stati nazionali a non snaturare aspetti “identitari”. La dinamica è quella di “scaricare” esternamente problemi economici o sociali (e politici). La crisi economica degli anni Settanta e la recessione del 2008 sono “esternalizzazioni” di politiche economiche nazionalistiche degli Stati Uniti, con la conseguenza che a pagare i costi maggiori sono stati i piccoli e “indifesi” stati europei. Anche la guerra in Ucraina è l’esternalizzazione di una situazione sociale interna e di isolamento politico internazionale disastrosi per la Russia.

Senza preoccuparsi di coordinare, pianificare le politiche, economiche o geo-strategiche, nazionali in modo da stabilire un equilibro tra gli stati, definirsi europeisti o internazionalisti risulta decisamente controverso.

Lo Stato di Benessere (Welfare State) come strumento nazionale

Le crisi internazionali, però, non avrebbero potuto mantenere gli effetti duraturi che hanno prodotto – a livello globale – se non si fossero combinate, negativamente, con la spinta delle sempre più poderose politiche di spesa pubblica dei vari Stati nazionali; cioè le spese per il Welfare State.

Sia dal punto di vista storico che da quello dell’Unione Europea oggi, il mancato coordinamento strategico (pianificato) delle politiche di welfare ha orientato nazionalmente le misure difensive contro i turbamenti internazionali. Tuttavia, perpetuare una stabilità interna senza tener conto delle ripercussioni sui partner – europei o internazionali – porta inevitabilmente a frizioni e tensioni oggettive. Oltre tutto, l’architettura europea, di controllo delle politiche monetarie ma non delle finanze pubbliche comuni, comporta inefficienze strutturali nella gestione economica da parte dei governi degli stati membri.

«E’ innegabile che la maggior parte del complesso sistema di provvedimenti politici intesi a favorire il progresso nazionale o l’aumento dell’eguaglianza e della sicurezza degli individui che caratterizzano oggi lo Stato di Benessere è stato un elemento di disturbo per l’equilibrio internazionale»[1]. Nessun paese, ieri o oggi che sia, ha concepito o attuato politiche pubbliche in maniera concertata e pianificata con altri paesi; e nessuno si è mai posto il problema delle ripercussioni di tali politiche sulla sicurezza, la stabilità e il benessere degli altri stati.

«Non saremo mai in grado di afferrare i problemi internazionali attuali e futuri se ci rifiutiamo di affrontare apertamente il fatto che lo Stato di Benessere nei paesi ricchi del mondo occidentale è protezionistico e nazionalistico»[2]. Ma ancora, «nella causazione circolare propria dei processi sociali cumulativi, sono proprio queste politiche in parte adottate per far fronte a crisi internazionali, che alimentano la tendenza alla disintegrazione internazionale»[3].

La vocazione internazionalista oggi

E’ vero, nell’Unione Europea la situazione è migliorata rispetto al secolo scorso, cioè quando l’edificazione europea non era ancora avvenuta. Concreti passi avanti sono stati fatti con i trattati vigenti, soprattutto, delegando competenze esclusive all’Unione: le regole del mercato interno, la politica commerciale e l’unione doganale, ad esempio.

Le prime storture iniziano sulle materie concorrenti tra stati e Unione; ovvero, nel mercato interno (le regole sono esclusive dell’UE ma sulle politiche gli stati mantengono la propria parola), coesione economica, sociale e territoriale ecc. Le difficoltà si incontrano sia sulle tempistiche decisionali, ogni Stato ha interessi da difendere e più l’UE si allarga più ci sono interessi divergenti – con l’esito finale di politiche comuni deficitarie; sia nelle relazioni tra stati membri che fra stato e UE. I governi hanno un’opinione pubblica interna da affrontare e non possono risultare come “colpevoli” di non essere stati in grado di ottenere determinate scelte comuni.

Ma il problema maggiore, che resta completamente inaffrontato, è quello delle politiche di Welfare State. Politiche che continuano ad aumentare percentualmente sul prodotto aggregato. I dati Eurostat del 2021, infatti, ci illustrano che la spesa pubblica nella UE (media della spesa dei vari stati) si è attestata al 51,5% del PIL; spesa cresciuta in valori assoluti del 5,1% rispetto al 2020.

La vocazione europeista ed internazionalista oggi, dunque, deve partire dal presupposto di infrangere le barriere fra uno stato e l’altro poste delle politiche pubbliche nazionali e sostituirle con un sistema sovranazionale flessibile. «Poiché le nazioni non acconsentirebbero mai a smantellare le loro politiche economiche nazionali, – e sono dell’opinione che abbiano valide ragioni per farlo – giungo alla conclusione pratica che l’unico mezzo per avviarci verso l’obiettivo di una integrazione internazionale deve essere quello di internazionalizzare l’attuale struttura delle politiche accennate»[4].

Per realizzare la vocazione internazionalista, però, dobbiamo affrontare il problema ribaltando il concetto. Cioè, bisogna puntare ad armonizzare, coordinare e unificare, dal punto di vista internazionale, le strutture delle politiche pubbliche nazionali. Non si stratta di un’unificazione assoluta (irrealizzabile) ma di sussidiare e decentralizzare i pubblici controlli all’interno di una pianificazione economica e sociale il più globale possibile – iniziando dall’Unione Europea.

Essere internazionalisti (o europeisti) oggi vuol dire questo: «una volta che lo Stato di Benessere nazionale sia nato e che si sia profondamente radicato nei cuori di quei popoli che detengono il potere politico nelle democrazie occidentali, non c’è alternativa alla disintegrazione internazionale a meno che, attraverso una cooperazione internazionale ed un mutuo coordinamento, non si comini a creare il Benessere Mondiale (o europeo)»[5].

 

[1]      Myrdal G. (1960), Beyond the Welfare State. Economic Planning in the Welfare State and its International Implications, London, Yale University Press.; trad. it. di Bandini M.G. (1962), I paesi del benessere e gli altri, Milano, Feltrinelli.

[2]      Myrdal (1960).

[3]      Myrdal (1960).

[4]      Myrdal (1960).

[5]      Myrdal (1960).

 

N°119 del 25/05/2023

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