Ma quale Sol dell’Avvenire!… Note su un regista egomane che riscopre Trockij e Federico Fellini

di Maurizio Fantoni Minnella*

Che cosa può affliggere Nanni Moretti oggi, più del fatto di non avere vinto la palma d’oro a Cannes con Tre piani?

O forse dovremo dire che maggior afflizione sia dovuta alla scomparsa della sinistra in Italia? Quella vera, s’intende, comunista, per il regista di Palombella rossa, il miglior esito sino ad oggi di un autore troppo autore da non esserlo affatto, anche per ragioni di stile. Ma è mai esistito uno stile registico nel cinema di Moretti? A determinarne l’assenza sono i troppi prolungamenti del suo ego smisurato, che ingombrano i suoi film causandone talvolta inevitabilmente, il fallimento. Laddove il regista dismettendo i panni di Michele Apicella, suo alter-ego, ha inteso affrontare narrazioni lontane dai suoi tic e dalle sue nevrosi, in altre parole, dai luoghi comuni autoalimentatisi film dopo film. Ma anche quando il regista nel confrontarsi con il ricordo della morte della madre, ne fa un’elaborazione cinematografica del lutto che ha il tono di una pura agiografia del dolore.

Con Il sol dell’avvenire, Moretti si propone di ritornare sui propri passi, di chiudere un cerchio iniziato fin dagli arbori del suo cinema, riproponendo, quindi, temi a lui cari come il destino della sinistra comunista e insieme quello del cinema, procedendo di auto-citazioni in auto-citazioni, senza tralasciare il gusto della sentenza e dell’invettiva, nell’immane sforzo di tenere viva l’idea di un cinema etico.

Partiamo dal titolo: evidente il richiamo al sogno comunista di un futuro radioso per l’umanità, peraltro già utilizzato da Gianfranco Pannone per il suo film documentario sulle Brigate Rosse del 2008. Ma ancor più evidente è il riferimento alla sequenza finale di Palombella rossa dove nel salire su una ripida collina il piccolo Michele e sua madre, osservando un sole di cartone apparso all’improvviso, accecati dalla luce, scoppiano in una risata sarcastica. Perché dunque ritornare su un simbolico sol dell’avvenire, quando nel film, questo aveva il sapore delle mancate utopie?

La vis polemica e l’indignazione verso l’incapacità del protagonista del film, segretario di sezione del partito comunista che Giovanni, il regista, sta girando nel quartiere popolare romano del Quarticciolo, di assumere una posizione critica rispetto ai fatti d’Ungheria del ‘56 e quindi in pieno dissenso con il proprio partito, ci giunge pretestuosa, in quanto priva di qualsiasi attualità politica o dialettica. Tutta la messinscena ha il gusto del deja vu, un universo morettiano artificialmente costruito per piacere, innanzitutto, al narcisismo del suo creatore. Lo stesso epilogo del film, che prevedeva inizialmente il suicidio del segretario, del tutto improbabile, viene proprio per questo messo a confronto, in una sorta di contrappunto elementare, con il nuovo e definitivo finale in cui ottimisticamente si sventola il tentativo di rimescolare le carte della storia, in funzione di un’utopia che la storia stessa ha superato.

Ancor più pretestuosa, dicevamo, se intercalata con la goffa storia d’amore fallita tra il regista e la moglie produttrice (!), fotocopia di altre storie similari, che guarda a tante, troppe trame woodyalleniane, e dove un Moretti attore si rivela incapace di conferire un minimo spessore al suo personaggio se non confrontandosi ancora una volta con se stesso. Ancor di più  se infarcita di cadute di tono e di stile (le solite “bambocciate” morettiane senza le quali non potremmo più dire: questo è un film di Moretti!) come gli imbarazzanti camei riservati a Renzo Piano, Corrado Augias, Chiara Valerio e Martin Scorsese (questo, per fortuna, solo verbale) che compromettono la buona riuscita di quella che è senza dubbio la sequenza migliore del film, in cui  Giovanni, cerca invano, per diverse ore di bloccare l’ultima ripresa del film del suo giovane antagonista (irrinunciabile in Moretti l’idea della competizione), in cui si avvicenda un’esecuzione in piena regola: mentre uno dei due protagonisti sta per sparare in fronte all’altro, ecco Giovanni il regista parlare di rifiuto della violenza e della sua gratuità, di etica dell’immagine, citando letteralmente Breve film sull’uccidere, 1988 di Krysztof Kieslowski come esempio di violenza che allontana lo spettatore dalla violenza stessa e forse, indirettamente, la polemica di Serge Daney sul carrello “immorale” del finale del pontecorviano Kapò, 1959, decretando, a suo modo, la propria avversione per Tarantino e i suoi complici in tono minore. Poi, vistosi in netta minoranza, se ne va malinconicamente dal set, con una muta sentenza sul destino del cinema.

Moretti ancora una volta e più di altre volte ama citarsi e i riferimenti ai suoi film precedenti sono molteplici: si va dal brutto Sogni d’oro (con la coperta variopinta e il vezzo registico da 8 e mezzo) a Caro diario (il monopattino che sostituisce la vespa, i malinconici palleggi del regista nella solitudine della piazza di quartiere e il film splatter del giovane cineasta che sostituisce, dal vero, quello visto nel cinema estivo, ossia Henry pioggia di sangue, 1986 di John Mc Naughton), passando per Palombella rossa (l’intercalare di inserti canori tra le scene del film e l’ossessione per le parole sbagliate come quelle pronunciate dai giovani dirigenti di Netflix cui ha sottoposto il suo film – in chiara polemica con il cinema sulle piattaforme, destino inevitabile del cinema nel mondo globalizzato – ma anche il riferimento del pallanuotista Imre Budavari, nel nome dell’omonimo e inventato circo ungherese presente nel film), Aprile (il sogno del film sul pasticcere trockjista che diventa  sogno di un film fatto solo di canzoni oppure progetto per un altro possibile film, “il nuotatore”, ossia il racconto di un uomo che torna a casa attraversando a nuoto una sequenza di piscine di un quartiere di ricchi borghesi, che in realtà sarebbe, ma Moretti non ne fa cenno, il remake dell’americano Un uomo a nudo  di Frank Perry, 1968, tratto dal romanzo di John Cheever), Bianca (il riemergere dell’ossessione per le brutte scarpe femminili come i sabot), La messa è finita (la pudica avversione per il bacio in pubblico) e infine, Il caimano (dove il regista di b-movies è qui sostituito da uno più giovane la cui opera prima è un’apologia della violenza gratuita). Infine, all’appello di questo vecchio-nuovo Moretti ci sono Trotckij e Fellini.  Di quest’ultimo il film è intriso sino al midollo. Ma questo basta a farne un’opera riuscita?

Innanzitutto la presenza del Circo come co-protagonista e del suo rutilante spettacolo, collegato però al tema della solidarietà politica con il popolo ungherese in lotta (l’utilizzo di immagini di repertorio dell’invasione dell’Ungheria, dentro un contesto di solipsistica commedia, appaiono alquanto velleitarie), la presenza del cinema nel cinema, uno slegato omaggio a La dolce vita, con la sequenza finale in cui Marcello, nel salutare, mestamente, sulla spiaggia la candida ragazzina, si separa per sempre dalla propria innocenza, e la sarabanda finale in salsa comunista dove l’evocazione del fantasma di Trockij (la cui immagine è presente su un cartellone), come eroe del vero comunismo, l’anti-Stalin, si salda con l’evocazione di un altro illustre fantasma, quello di Federico Fellini del quale viene riproposta un’altra sarabanda, quella del finale di 8 e mezzo. Sopra tutti domina ancora una volta la figura del regista demiurgo che nell’inseguire un’impossibile utopia, prova, al pari di Marco Bellocchio di Buongiorno notte, 2003, a cambiare il corso della storia: se in quel film Aldo Moro, anzichè morire, giustiziato dalle Brigate Rosse, se ne va, sereno, in giro per la città, nell’ultima fatica morettiani i comunisti romani, Togliatti incluso, marciano festosi senza i soliti cori ideologici ma a suon di banda con contorno di elefanti da circo, appunto, e una serie di attori e attrici amici danzanti, verso un “sol dell’avvenire” che nessuno, ormai, aspetta più.

* Maurizio Fantoni Minnella, è autore, tra gli altri, del saggio Habemus Nanni, lessico morettiano. Architettura di un autore, Diabasis, Parma 2015

N°112 del 2/05/2023

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