Non luoghi come icona negativa: una rilettura critica

di Maurizio Fantoni Minnella

Quando nell’ormai lontano 1992 l’antropologo francese Marc Augé, in un suo fortunato volume (1), adottò per la prima volta il termine di “non luoghi” per definire una serie di spazi pubblici di transito, di passaggio, privi di qualsiasi radice storica e antropologica, del tutto estranei ai territori e ai paesaggi urbani che li ospitano, parlava di stazioni ferroviarie, aeroporti, ma soprattutto di centri commerciali, intesi come la vera novità di edilizia sociale degli anni ’90, affermatasi con l’avvento della globalizzazione e della sur-modernità, per usare una definizione, peraltro assai appropriata, dello stesso antropologo.

Alcuni anni più tardi, il sociologo Alessandro Dal Lago (1947-2022) si riferì proprio a tale neologismo, entrato nell’uso corrente, per definire i migranti contemporanei come “Non Persone”, dal titolo del suo volume più significativo (2). Dunque se sono esistiti dei non-luoghi, è possibile che esistano non-persone, senza che vi sia necessariamente un collegamento tra uso degli spazi e natura dei soggetti. I migranti cui si riferiva Dal Lago non sono persone, innanzitutto, perché privi di cittadinanza e quindi è come se essi seguitino a fluttuare in un non-luogo ma invisibile del non-esserci pur, di fatto, esistendo.

Quindi, è necessario stabilire, invece, se i milioni di persone che affollano i cosiddetti non-luoghi, secondo l’indicazione di Augé, siano anch’essi non-persone o piuttosto, non lo siano. L’aumento vertiginoso di questi non luoghi, con un particolare riferimento ai grandi centri commerciali nelle aree più periferiche e di conseguenza delle persone che li frequentano quotidianamente, rispetto al tempo in cui venne dato alle stampe il volume di Marc Augé, sta innanzitutto a significare che, se da una parte i centri storici (con le dovute eccezioni specialmente nell’area mediterranea di costa), spopolandosi dei vecchi abitanti, si sono progressivamente trasformati in “parchi a tema della  storia urbana”, ad uso del cosiddetto turismo culturale, dall’altra si affermano e si confermano luoghi senza storia, più che non luoghi, ormai post-luoghi dove l’urgenza quasi esclusiva del consumo non ha bisogno del reale confronto tra soggetti in cui storia individuale, cultura e memoria storica si intrecciano dando vita a una dialettica sempre più negata dai tempi del lavoro e del consumo.

In altri non luoghi di transito come gli aeroporti, ad esempio, assistiamo ad un curioso paradosso: vi si ha l’accesso esibendo la propria identità come prova certa della propria esistenza e al tempo stesso, una volta all’interno, passati i relativi controlli, ci si trasforma in numeri da calcolare per le operazioni di imbarco dell’aereo. Eppure è proprio in non luoghi come questi che molte persone si muovono come individui attraverso la massa anonima degli altri passeggeri. Un perfetto esempio di un non luogo capace di generare un suo simile è Malpensa, a ridosso del quale il villaggio di Case Nuove si è trasformato in villaggio fantasma dove gli aerei, volando troppo basso e troppo vicino alle abitazioni, spinsero gli abitanti ad andare altrove. Dopo le case murate, seguirono le case abbattute entro un paesaggio fantasma abitato solamente da qualche grosso e anonimo albergo per hostess e piloti in transito. Se nell’ostinato percorrere la città fin dentro le sue viscere o alla scoperta dei cosiddetti passages parigini come emblemi della modernità, il filosofo tedesco Walter Benjamin ne scopriva i principali elementi, senza tuttavia una rottura con i luoghi del passato, con la realizzazione del complesso del Beaubourg (1969-1974), che costò la totale demolizione dei Mercati Generali (Les Halles), il cosiddetto “ventre di Parigi” descritto da Emile Zola nel romanzo omonimo del 1873 (3), l’architetto Renzo Piano con Richard Rogers, perviene alla definizione di non luogo ante-litteram, a partire dalla sua stessa conformazione architettonica, del tutto estranea al contesto circostante, laddove il consumo culturale spersonalizzato non si presenta molto diverso da quello che avviene oggi in un grande centro commerciale, nonostante l’allure che sempre aleggia su di esso. In una logica di consumi globali massificati, sono ormai le masse popolari a creare il non luoghi e non il contrario.

Lo testimoniano i grandi musei che da luoghi di cultura e di conservazione si sono trasformati in non luoghi in cui “consumare” il capolavoro mediaticamente celebrato, laddove non esiste altro spazio se quello circoscritto del quadro e quello dello spettatore. Non è un caso, forse, che qualcuno, nell’intento di rompere tale incanto mediatico, abbia compiuto un atto estremo, desacralizzate, a danno dell’opera stessa, rivelando, altresì, tutta la propria impotenza, che è la nostra di fronte al lento dissolversi dei luoghi fisici, trasformati in succursali di luoghi virtuali.

Ci si potrebbe spingere oltre affermando che nelle nuove forme di comunicazione digitale (tablet, cellulari etc.), qualsiasi luogo in cui ci si trovi si trasforma in non luogo, nel mentre attribuiamo ai centri commerciali la definizione di post-luoghi, in virtù del fatto che spostandoci in una sorta di altrove virtuale, finiamo per non riconoscere più i luoghi della nostra fisicità.  Due, infine, si presentano gli elementi che contribuiscono alla creazione di non luoghi virtuali e post-luoghi fisici, essi sono il consumo e la comunicazione digitale. Quest’ultima verrebbe a completare il nuovo status umano iniziato in precedenza con le trasformazioni del consumo in un processo compulsivo e totalizzante, esteso sull’intero arco settimanale, rafforzando la bipolarità tempo del lavoro – tempo del consumo e infine, generando il singolare ossimoro dell’individualismo di massa. E’ significativo il fatto che la gente, ormai, percepisca questi non luoghi come luoghi familiari in cui ritrovarsi e attraverso il medium delle merci, definire un nuovo rapporto con il proprio tempo libero inteso, quindi, come tempo del consumo che non conosce interruzioni nemmeno per il “tempo della festa”. La quasi totale secolarizzazione dei comportamenti collettivi entro una prospettiva globale ha spinto inevitabilmente ad una neanche troppo difficile identificazione delle merci con i suoi consumatori. Là dove ci sono le merci c’è la vita. Tutto è finalizzato, ogni gesto e ogni luogo: perfino un parco pubblico, spazio per eccellenza di socialità, esiste solamente in funzione di bambini e di cani. Tra i due poli sovrani del centro commerciale e della casa si è, dunque, creata una sorta di zona grigia, un tempo luogo di vita collettiva ma che oggi attende una sua possibile ridefinizione.

 

 

Note

  1. Marc Augé, Non-lieux, Introduction á une antropologie de la surmodernité, Paris 1992, trad. italiana, Non luoghi, Eleuthera edizioni, Roma 1996, rist. idem 2008, 2019
  2. Alessandro Dal Lago, Non persone, l’esclusione dei migranti in una società globale, Feltrinelli editore, Milano 1999
  3. Emile Zola, Il ventre di Parigi, Garanti editore, Milano 1982

N°107 del 12/04/2023

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