-di Maurizio Fantoni Minnella –
Nell’epoca del mercato globale e delle privatizzazioni di beni fondamentali per lo sviluppo civile quali acqua, sanità, trasporti etc., un ruolo tutt’altro che trascurabile viene attribuito allo spazio pubblico e alle sue specifiche funzioni di comunicazione tra le persone, i cittadini di una qualsiasi realtà urbana. S
pazio sempre più collegato all’idea di sicurezza e, quindi, di controllo.
Lo abbiamo visto applicare in diverse città e nelle più svariate modalità. Una di esse riguarda l’uso pubblico delle panchine nelle aree pedonali dove ormai l’inserimento di mono sedili, magari contrapposti, faciliterebbe la conversazione ma ancor meglio ridurrebbe il potenziale di stazionamento sulla singola panchina da parte di soggetti indesiderati come homeless o immigrati. Insomma, su tali panchine urbane non si può riposare, non si può dormire e nemmeno essere seduti l’uno accanto all’altro. Ecco il motivo per cui un uomo che porta a passeggio il suo cane, non si ferma, non si siede, ha uno scopo, implicito nella stessa presenza dell’animale e dunque, non sarà mai un soggetto sospetto. Al contrario, di chi, come il classico flaneur o più modernamente, l‘esploratore urbano che si avvicenda di strada in strada il cui solo scopo è di osservare il lento scorrere dell’esistenza tra persone, cose e architetture. Eppure un noto e compianto giornalista disse che il grado di civiltà di un luogo si misura dalla quantità di panchine presenti nelle strade. Inoltre, è in atto la tendenza, ormai piuttosto evidente ad un occhio attento e soprattutto critico, a ridurre gli accessi ai luoghi pubblici: uno solo per entrata e uscita. Riduzione, quindi delle facoltà di movimento. Nelle grandi stazioni ferroviarie, ad esempio, quello che poco tempo addietro era lo spazio pubblico antistante i binari che garantiva la possibilità d’accesso a chiunque, per una qualsiasi ragione, scegliesse di entrare in una stazione, verrà successivamente interdetto a chi è sprovvisto di biglietto. Senza contare la massiccia, quasi ossessiva, presenza di telecamere posizionate ovunque negli spazi urbani, a riprova dell’ossessivo bisogno di controllo, che vanno ad aggiungersi ai già collaudati sistemi di vigilanza digitali. L’idea del controllo degli individui non è solamente una prerogativa delle autorità preposte ma è perfino connaturato allo spirito umano, oggi sempre più orientato verso un iper-individualismo di massa (alimentato anche dalla cultura digitale, ovvero dai social media), tendente ad escludere l’altro come un elemento estraneo se non ostile. Se ad esempio una qualsiasi persona camminasse semplicemente in un parco pubblico senza un cane, un passeggino occupato da un bambino o in tenuta di jogging, essa finirà sempre per suscitare sospetto o estraneità. Questo per il fatto che oggi si è notevolmente abbassata la soglia di comprensione degli altri e della loro diversità.
L’elevazione del concetto di proprietà privata a mito, a un assoluto che in un’ipotetica scala di valori verrebbe appena dopo la figura di Dio, non ha certamente facilitato nella coscienza collettiva l’identificazione dello spazio pubblico come spazio collettivo altresì degno di rispetto e di valorizzazione. Perfino quando, nella valorizzazione di percorsi alternativi mediante piste ciclabili, ossia nuove occasioni di utilizzo di spazi pubblici, assistiamo stupiti all’insorgere di privati che in questi “nuovi” spazi occupati da persone che passeggiano o corrono lungo un percorso segnato, (ricavato magari da ex aree boschive adiacenti alle abitazioni), vedrebbero, per così dire, limitata la loro libertà privata che fa il paio con proprietà privata, ma se quest’ultima è semplicemente un dato oggettivo nella sua evidenza materiale, la prima, invece, è un’entità astratta e quindi non calcolabile in questi termini. Allora si innalzano barriere di orrendi ombreggianti per nascondere il fastidio provocato da nuove presenze umane o per nascondersi da quelle stesse presenze!…
Infine, ad accendere davvero un sentimento di indignazione verso il tentativo in atto di ridurre lo spazio urbano come se questo costituisse, paradossalmente, di per sé un pericolo per la comunità, ci viene incontro il caso di Genova, e precisamente la progressiva chiusura con cancelli di ferro di un numero elevato di vicoli e piazzette (si parla di più di 40, di cui esiste fortunatamente un censimento da parte dell’Osservatorio del Centro Storico) in diverse aree della città vecchia. Ora sappiamo che trattandosi di città medievale formata da un tessuto fittissimo e intricato di caruggi tra di loro collegati secondo una logica solo apparentemente irrazionale, affine all’urbanistica islamica, innanzitutto si è commesso deliberatamente un crimine verso il principio stesso dell’urbanistica che è quello di far comunicare tra loro persone e spazi diversi. Non meno grave è l’altro aspetto, quello della prevaricazione del privato sul pubblico, ovvero l’impossessamento degli spazi dei vicoli (di varia lunghezza, alcuni dei quali in ripida salita dalla città vecchia alle “zone interstiziali”) da parte delle famiglie che abitano lungo l’intero perimetro, concesso dalle stesse istituzioni pubbliche (ovvero il municipio di Genova). Scelta politica, attuata dall’amministrazione di centro sinistra e confermata poi dall’attuale di centro-destra, o scelta strategica? Crediamo entrambe le opzioni, tesi questa che illumina circa le coincidenze in materia di sicurezza e di ricerca del consenso popolare tra la compagine di centro-destra e quella di centro-sinistra. Adducendo la tesi del degrado ambientale, della tossicodipendenza e della micro criminalità circoscritta a zone, si è dunque potuto invocare il diritto alla sicurezza che come un feticcio, ha trovato immediatamente una sua applicazione in un sistematico abuso, ossia, la privatizzazione di uno spazio pubblico che nell’insieme si estende per la quasi totalità della città vecchia, dal Colle di Sarzano (Sestiere di Castello) a via di Prè e a Balbi (Sestiere di Prè-Maddalena). Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è quello di un utilizzo improprio dei vicoli “privatizzati”, di queste “zone morte” trasformate perlopiù in magazzini, parcheggi temporanei di veicoli, depositi o ricettacoli di spazzatura “privata”, quando, al contrario, basterebbero controlli giornalieri dei vicoli genovesi a difesa civica e non necessariamente punitiva del decoro e della protezione del territorio.
Un altro aspetto che rivela, oltre che stupidità, una falsa coscienza urbana e di conseguenza una progettazione e gestione cattiva degli spazi è il fatto che la presenza di automobili inquinanti in aree che potrebbero trasformarsi in spazi pedonali, da sola allontanerebbe la presenza di soggetti indesiderati!… Dunque anche le automobili in movimento, a loro insaputa, avrebbero assunto una qualche funzione di controllo!… Un altro esempio che confermerebbe tale tendenza è rappresentato dalla Stazione Marittima dove era stato fatto un ingente investimento per realizzare una passeggiata sul porto con nuova pavimentazione e arredo urbano per i momenti e i luoghi di sosta panoramica. Dopo alcuni anni di civile utilizzo pubblico la passeggiata è diventata off limits per ragioni di sicurezza. Ecco dunque srotolare il solito rosario ipocrita con il quale si intende ormai con rapidità felina limitare gli spazi vitali per la gente (per usare una definizione dell’urbanista americano Bernard Rudovsky), in modo da ridurre oltremodo le aree cosiddette a rischio (ma di quali rischi stiamo parlando? Bombe e attentati islamici?…) mentre sappiamo che tutte le città sono ormai soggette a video-controlli.
Controllare ed essere controllati si rivela come il paradigma della complicità tra il potere e i suoi sudditi.
N°93 del 19/01/2023