-MARIA ANNA LERARIO –
Il Censis ha da poco pubblicato il 56° Rapporto sulla situazione sociale del Paese. Un appuntamento annuale che mira a dare un’idea delle evoluzioni socio-economiche dell’Italia e degli italiani. Uno strumento utile per comprendere non solo a che punto siamo, ma soprattutto per provare a delineare un percorso verso il futuro, interpretando le tendenze.
Inutile, forse, ripetere ancora come e quanto questo 2022 sia stato un anno di grande difficoltà per il Paese: quattro crisi, una sull’altra, sono entrate a gamba tesa e con prepotenza nelle vite di ognuno.
L’economia, la società, la cultura, persino gli approcci psicologici alla vita hanno subito dei colpi importanti.
La pandemia è ancora ben presente, con i suoi lunghi strascichi non solo dal punto di vista della salute fisica, ma soprattutto da quella psicologica, economica e sociale. A questo si è aggiunto con una forza impensabile, il disorientamento dovuto alla guerra in Ucraina, all’impennata dei prezzi e alla crisi economica.
Il rapporto Censis descrive una società impaurita, sfiduciata e con sensazioni negative riguardo al futuro: il timore più diffuso è quello di non riuscire a venir fuori da una situazione di difficoltà economica. Subito seguito da quello di una degenerazione della guerra in atto che arrivi a un coinvolgimento attivo dell’Italia.
La paura si accompagna al desiderio di rivalsa e a un sentimento di inquietudine e rigetto verso le situazioni di disuguaglianza e disparità. Nonostante ciò, però, non c’è una spinta alla ribellione, alla partecipazione attiva, alle manifestazioni di piazza o mobilitazioni. Del resto, le ultime elezioni, che hanno sancito la vittoria di Giorgia Meloni e del suo partito, sono quelle che hanno registrato un elevatissimo numero di astensionisti.
Verso quale società stiamo andando, dunque? Nostalgia, rimpianti, malinconie non possono essere i sentimenti di un Paese che deve puntare alla crescita e allo sviluppo.
Il Censis ha etichettato questa nostra società come “post- populista” e “malinconica”, ferma in una sorta di apatia che si registra anche nel lavoro. Fenomeni come le dimissioni, il quite working sono in aumento e tra i giovani cresce una sfiducia generale verso lo studio, la formazione. Si cercano modi alternativi di fare reddito, molto gettonata è la professione di influencer, con la convinzione che non serva, in fondo, grande cultura: bastano uno smartphone e chiacchiere con o senza senso scaricate nel mondo virtuale.
“Siamo di fronte a sconvolgimenti veloci, inaspettati, difficili da metabolizzare, a un rimescolamento delle carte e a un ridisegno delle planimetrie sociali che impongono soluzioni. La crescita delle esportazioni, rapida e diffusa negli ultimi mesi, maschera il calo della domanda interna e la rimodulazione dei consumi; la politica dei sussidi a pioggia copre bisogni indistinti e comporta negativi effetti collaterali; la ricerca di una nuova e diversa posizione professionale che coinvolge tanti giovani, a volte con poca attenzione alla progressione di conoscenze e competenze, annebbia le difficoltà strutturali di inserimento nella vita lavorativa; i flussi di risorse promessi e assegnati dal Pnrr al Mezzogiorno, mai come ora ingenti, chiamano a raccolta capacità di progettazione e responsabilità locali spesso inadeguate per mettere in moto dinamiche di medio periodo e occupazione di qualità. E la funzione preziosa dei reticoli intermedi di responsabilità, gli unici in grado di ricondurre i percorsi individuali in un cammino collettivo, non è più nemmeno una parola d’ordine utile a prevenire i problemi latenti e a tamponare quelli esistenti.”
È un momento delicato: sembra quasi che la paura abbia attanagliato così tanto gli italiani da lasciarli immobili davanti a un probabile nemico ancora senza nome. Una difesa naturale, forse. L’istinto di fermarsi, nascondersi, in attesa di tempi migliori.
Chi “dirige” il Paese, però – e non mi riferisco esclusivamente al Governo, ma anche alle organizzazioni sociali e culturali, alla scuola e alle università – ha il dovere di occuparsi davvero di questo quadro generale di sconforto e agire in modo strutturale per cambiare il senso delle cose.
Serve una visione collettiva. Un ideale da seguire. Un insieme strutturato di azione e pensiero utile a smuovere e scuotere la società dalla paura del futuro. Unico vero e grosso ostacolo alla crescita e allo sviluppo del Paese.
Soluzioni di lungo respiro, dunque. Misure utili a sviluppare un modello di crescita più sano, capace di gestire le grandi e oramai indispensabili transizioni: ecologica, tecnologica, energetica. Aggiungo, anche sociale.
Non è il momento di restare immobili ad aspettare tempi migliori. È, invece, il momento della costruzione, dopo uno tsunami psicologico che ha investito tutta collettività.
N°87 del 09/12/2022