IN RISPOSTA A UN AMICO SOCIALDEMOCRATICO SULLA GUERRA E ALTRO

di Maurizio Fantoni Minnella

 

“…Ma ho visto anche degli zingari felici, corrersi dietro, far l’amore e rotolarsi per terra… “- Claudio Lolli

Che la guerra russo-ucraina abbia creato una spaccatura nell’opinione pubblica è un fatto certo, ma che questa giunga a stimolare una dialettica tra posizioni divergenti, non appare così scontato. Ed è un bene che sia così ma procediamo con ordine.

Innanzitutto mi si definisce antiamericano di sinistra, ma che cosa significa, oggi, essere antiamericani? Non significa certamente confondere le politiche americane dell’ultimo mezzo secolo e oltre con la miglior tradizione culturale di quel paese, ma al contrario distinguere  con determinazione l’idea di un’altra America possibile, nella sua accezione più ampia, lontana dalle politiche imperialiste che ormai accomunano democratici e conservatori in un magma indifferenziato che soltanto in alcuni casi ha saputo marcare talune differenze che peraltro non si sono rivelate così sostanziali da cambiare sia pur progressivamente il corso politico e sociale di quel paese.

Vediamo, ad esempio, come le potenti lobbies delle armi continuino indisturbate a proliferare su un malessere sociale generalizzato capace di produrre ciclicamente tragedie collettive. Da una società che nasce dalla conquista violenta del territorio, basata sul genocidio del popolo dei nativi americani, che pone l’arma come legittima difesa personale diffusa in tutte le classi sociali e come espressione di un individualismo dalla frontiera ormai allargata fino a divenire globale, non c’è proprio da stupirsi nel vedere commettere stragi gratuite di innocenti.

Senza volerlo ammettere siamo diventati un satellite americano a partire dal secondo dopoguerra quando abbiamo scambiato l’ingente quantità di dollari del Piano Marshall con pezzi della nostra reale indipendenza politica, accettando qualsiasi ingerenza americana nella politica interna del nostro paese. Ma si diceva allora che eravamo in guerra, ma con chi? Con il blocco sovietico ma soprattutto con il partito comunista italiano, che pur essendo stato tra gli artefici della nuova Costituzione repubblicana e dunque democraticamente legittimo, rappresentava pur sempre un pericolo per la stessa democrazia. Così si pensava, così si volle che la gente comune pensasse. E a lungo, troppo a lungo. Non si è mai voluto ipocritamente metterlo fuorilegge come in Germania o negli Stati Uniti (dove se eri iscritto al Pci ti veniva negato l’ingresso nel paese). O come nell’Ucraina del 2022.  Tuttavia i numerosi attentati, stragi, depistaggi, coinvolgimenti dei servizi deviati dello stato e delle forze di polizia, di movimenti neofascisti, organizzazioni clandestine e atlantiste stanno a dimostrare come in Italia, nel fare i conti con la storia recente sono esistiti e tuttora esistono due pesi diversi, quello di coloro che propongono uno sguardo obiettivo e il più possibile imparziale, osservando i fatti e giudicandoli nel loro contesto storico e coloro che invece, cavalcando l’onda del momento, pretendono di rileggere la storia facendo opera di basso revisionismo ideologico in materia di antifascismo, lotta partigiana e perfino di comunismo. Ciò, deliberatamente ignorando il perdurare di sentimenti e di appartenenze ad una storia, quella fascista, mai veramente rimossa, nonostante oltre cinquant’anni di democratizzazione, parola o concetto, spesso usato come foglia di fico per far passare contenuti di ben altra natura politica. Perché, allora, non dire che stiamo assistendo passivamente al progressivo svuotamento di significato della parola democrazia sulla quale abbiamo investito per decenni energie e speranze! 

Chi scrive queste pagine non è mai stato un militante del partito comunista, semmai dei movimenti. Tuttavia non può esimersi, per onestà intellettuale, dal rifiutare affermazioni del tipo “la scissione di Livorno del ‘21 è stata un clamoroso errore etc.”, pronunciate da personaggi autorevoli come il giornalista e scrittore Ezio Mauro ma non solo da lui…

Non farlo significherebbe delegittimare, una storia  importante, quella di un grande partito di massa, di milioni di uomini e donne, anche volendo prescindere dalle singole convinzioni politiche. Come del resto è impossibile credere alla vulgata mainstream secondo la quale la guerra russo-ucraina sarebbe iniziata solo cinque mesi orsono, che l’Ucraina sia un  paese pienamente democratico quando sappiamo che un numero consistente di partiti accusati di essere filo-putiniani, sono stati messi al bando, che non esista un’opposizione interna o se esiste non può di fatto esprimere liberamente il proprio dissenso, ovvero quello stesso rifiuto della guerra come diritto sacrosanto, che è anche il nostro punto di vista, sebbene espresso da un osservatorio privilegiato.

Sappiamo altresì che esiste un forte nazionalismo, che si autoalimenta non solo in virtù della propria condizione di paese invaso (“c’è l’invasore e c’è l’invaso, tutto qui, non c’è altro da dire”). Ecco anche questo abbiamo dovuto sentire recentemente, una riduzione elementare di un problema complesso di chi si rifiuta aprioristicamente di analizzare e capire, che non significa giustificare, le ragioni dell’altro). Un nazionalismo, comune a molti dei paesi dell’ex blocco comunista (basti pensare al consenso ottenuto di recente da Orban in Ungheria o alla regressione conservatrice in Polonia solo per citare i casi più esemplari), paesi che nella dura reazione al socialismo reale hanno scelto l’ultra conservatorismo in politica e il neo-liberismo in economia sotto l’ombrello onnipresente della Nato. Un nazionalismo che nel caso dell’Ucraina si autolegittima attraverso il patriottismo di formazioni dichiaratamente filo-naziste e paramilitari, oggi integrate nell’esercito regolare e rubricate come “eroi” (pensate a quanti pianti nel vederli uscire sconfitti dall’acciaieria Azovstal dopo avere tenuto per anni sotto scacco con una violenza militare indiscriminata le popolazioni russofone e russofile di quei territori!…).

Vi è inoltre l’imbarazzante presenza di un paradosso secondo cui al nazionalismo praticato a larga maggioranza, corrisponderebbe, senza che per questo vi sia una qualche insanabile contraddizione, l’abbraccio incondizionato all’America, qui ben rappresentata dalla Nato. E dunque, per il governo ucraino, le popolazioni russe del Donbass e di Crimea sono l’elemento estraneo che genera il conflitto. Esse rappresentano, altresì, il persistere di una cultura (qui intesa nella sua accezione più ampia), che si è inteso rifiutare con assoluta determinazione. La cultura slava e la lingua russa che ha contrassegnato per secoli l’esistenza di questo popolo.

In virtù di tali considerazioni, la questione del conflitto andrebbe affrontata anche come questione culturale.

Nel parafrasare lo scrittore ceco naturalizzato francese Milan Kundera nel suo breve saggio Un occidente prigioniero o la tragedia dell’Europa Centrale, scritto nel 1984, di recente pubblicato in Italia da Adelphi, secondo cui “…l’Europa sta smarrendo il senso della sua identità culturale…”, possiamo affermare che la vera tragedia dell’Ucraina non sia dunque la Russia di Putin, pur nella sua drammatica raffigurazione di potenza ostile d’invasione, ma l’Europa, quell’Europa che, facendosi America o si si preferisce, Occidente globale, non ha saputo fornire ai paesi  ex comunisti e dunque anche all’Ucraina che vale ricordarlo, era parte integrante dell’Urss, un’alternativa culturale e sociale, in altre parole, un nuovo pensiero europeo, in grado di includere anche la Russia come parte del concetto di Europa, in contrapposizione al diktat nordamericano di estensione infinita dell’impero, ossia del mercato, all’intero continente.

Parlare comunque di “nazificazione” può indurre al sospetto di una volontà di “pulizia ideologica” che tuttavia verrebbe a sovrapporsi all’idea stessa di pulizia etnica, in atto da almeno un decennio in Ucraina nei confronti delle popolazioni russofone e russofile. Ciò, ovviamente, non giustifica in alcun modo l’utilizzo strumentale e indiscriminato della prima. Di fronte alle complesse dinamiche belliche, ci uniamo, semmai, al pianto di chi nel Donbass e in altre territori ucraini ha perso famigliari, parenti, amici dal almeno otto anni sino all’oggi, tutti quanti vittime di una guerra assurda da condannare comunque e ovunque, nata non solo da ambizioni espansionistiche della Russia di Putin (individuato dalla propaganda Nato come il nemico pubblico numero uno, il male assoluto, dopo una sfilza di nomi, senza alcuna distinzione, da Fidel Castro a Mu’hammar Gheddafi,  passando per Saddam Hussein, Osama Bin Laden, un tempo usato dagli  americani in funzione anti-russa, e il partito di Hamas a Gaza dove crimini terroristici compiuti dall’esercito israeliano, dalla nostra stampa mainstream vengono incredibilmente considerati legittimi, al pari di quelli nordamericani!!), ma anche dall’odio e dall’intolleranza etniche di un popolo quello ucraino verso un altro, quello russo che disgraziatamente si trova nella parte orientale e sud orientale del proprio territorio. Sarebbe bastato concedere autonomia culturale e linguistica a tale minoranza che in quelle terre è invece larga maggioranza (in Crimea, un referendum popolare ha legittimato la scelta della popolazione a sentirsi parte dello stato russo, ma è rimasta inascoltata), per vanificare con gli strumenti della tolleranza e della ragione qualsivoglia ipotesi di annessione da parte russa.

Come è noto, anche sulla democrazia partecipativa si applicano due pesi e due misure a seconda del potere a cui si fa riferimento e a cui ci si vuole assoggettare. La vicenda ignominiosa di Stepan Bandera che qualcuno vorrebbe giustificare ancora una volta in nome dell’anti-comunismo, come a dire che le 100.000 persone di origine ebraica sterminati a Babj Yar, dei quali esiste oggi solo una memoria formale, hanno, in fondo, meno valore della lotta contro il comunismo e del nazionalismo più estremo. Che si pongano statue con la sua effigie a Kiev e altrove, sta semplicemente a dimostrare che il virus dell’antisemitismo, coniugato con quello dell’ultranazionalismo, conditi con il più becero e vetusto anticomunismo, abbia, purtroppo, ancora legittimità e cittadinanza in quel paese. Per fortuna, gran parte della società ucraina, quella che subisce la propaganda ideologica dell’improvvisamente risorto motto “vincere e vinceremo” del presidente Zelenskj che più che un guitto, ricorda un politico improvvisato che ha firmato un contratto con Washington a cui non può venire meno,  vuole la pace, subito perché ha sperimentato la guerra sulla propria pelle, e che può dare tranquillamente una lezione di etica a tanti, troppi, che in Italia, paese che ha conosciuto una guerra ben più sanguinosa e distruttiva, pontificano grazie al potere concesso loro dai media della carta stampata e delle televisioni, con poche ma necessarie eccezioni, sulla necessità di far proseguire le ostilità favorendo un’improbabile vittoria del proprio alleato, ma alleato di chi, di che cosa? Di chi dopo la caduta del Muro di Berlino ha stabilito che dovrà esserci nel mondo un unico pensiero, quello neoliberista. Delle multinazionali e non più degli stati sovrani. E dove risiedono le principali multinazionali?… Perché allora attribuire al marxismo-leninismo la prerogativa dell’intolleranza e del pensiero unico se non per spostare ancora una volta l’asse dialettico dalla problematicità del presente ad una più comoda, tanto più opportunistica e ipocrita lettura del passato?            

Nella tua lettera hai citato il popolo palestinese che è un popolo resistente, ma purtroppo non tutti all’Anpi sembra l’abbiano compreso, forse perché la retorica del vittimismo ebraico-israeliano è ancora troppo presente tra le sue fila. Oggi, infatti non sono gli ebrei a subire violenza (semmai questo avveniva in passato durante le due Intifade, peraltro unica difesa armata di un popolo oppresso e senza patria), ma i palestinesi: uno stato potente e armato, cresciuto all’ombra delle politiche americane contro un non-stato, un’entità palestinese che non ha nemmeno un’autonomia d’accesso ai propri territori senza passare per i controlli “kafkiani” dei militari israeliani. Ma non vogliamo andare oltre, sono già stati scritti e detti fiumi di parole, anche da parte dell’autore di queste pagine. Si dirà solamente che lo spettacolo consueto della contestazione della Brigata ebraica del 25 aprile, che pure ebbe un ruolo di rilievo della Resistenza, è anch’esso il frutto di una strumentalizzazione ideologica secondo cui si insiste con l’identificare tale Brigata con lo Stato d’Israele che non esisteva nemmeno. La presenza di quel folto numero di bandiere israeliane viene dunque legittimamente percepito da taluni gruppi di manifestanti come una provocazione, come a dire che colui che difende politiche che opprimono un intero popolo non può nascondersi con la propria bandiera dietro la bandiera dell’antifascismo. La polizia, come sempre, impedisce lo scontro tra le due compagini antagoniste delegittimando la protesta, derubricandola come semplice disordine pubblico. Di tutto questo lo scrivente è da anni partecipe e osservatore pacifico ma indignato. Va ricordato, inoltre, che essere un popolo resistente non significa essere per forza assimilati alla nostra resistenza sebbene si sia combattuto per i medesimi valori di libertà. Né è possibile comparare la resistenza antifascista con il patriottismo dello stato ucraino che oggi si vede oppresso dall’invasione russa fingendo di ignorarne le cause o adducendone di false come, ad esempio, quella della totale annessione da parte della Russia, quando esso, a sua volta, opprimeva al suo interno le popolazioni del Donbass. E‘ dunque, dalla consapevolezza di questa non innocenza, tanto più grave quanto volutamente ignorata (come accadeva all’indomani della strage di Odessa alla Casa dei Giornalisti nel 2014, tragico frutto di una finta rivoluzione liberale, pilotata in realtà da Stati Uniti e da forze interne ultra-nazionaliste), che dovrebbe indurre ad una riflessione sulla sostanziale inutilità di questa guerra, dimentichi, forse, di cosa sia stato per i bosniaci nel 1992-‘96 l’assedio di Sarajevo! Con esso si chiudeva un secolo di guerre sanguinose e un altro aveva inizio con l’illusione che la guerra nel nuovo secolo e millennio non avrebbe più avuto cittadinanza. Fuori la guerra dalla storia era lo slogan delle “Donne in nero”, ma quanti lutti dovremo ancora vedere e subire prima che anche questo secolo si concluda?   

Ma veniamo all’Italia, a come una tale schieramento mediatico di forze filo-ucraine abbia veramente fatto intravedere un futuro scenario politico preoccupante e fosco: la demonizzazione del nemico senza concedere l’onore delle proprie argomentazioni, il fare della Russia un nemico fittizio all’interno di una scacchiere politico ben più ampio nel quale ancora una volta sono le potenze “imperiali” a confrontarsi su un terreno che non è più quello della Guerra Fredda ma che invece sembra esserne un’inquietante attualizzazione, l’invocare ad ogni piè sospinto l’alto ideale democratico nella fattispecie della libertà di parola ai dissenzienti, nel mentre si fa ogni tentativo per toglierla ed emarginarla  e con essa i suoi esternatori con liste di proscrizione, licenziamenti in tronco da emittenti televisive di prima grandezza, giornali quotidiani e altro, (con la “magnifica” eccezione dell’ultra novantenne Furio Colombo, giornalista di lungo corso, sua l’ultima intervista ad un, oggi sempre più necessario Pier Paolo Pasolini, che compie il percorso inverso sbattendo la porta del giornale che ha contribuito a fondare perché troppo pluralista,  nel dare voce a personaggi “indegni” come Alessandro Orsini!…). Ma è ancor peggio, constatare come i presunti difensori della democrazia e del pluralismo, tacciano di fronte a quanto accaduto rispetto a tutte le manifestazioni culturali che avessero come protagonista la Russia, in tutte le sue declinazione letterarie, artistiche musicali etc., innalzando un muro di silenzio e di omertà. Imbarazzante e increscioso assistere ad una tale regressione di pensiero che ci riporta indietro a battaglie e a istinti patriottici che oggi suonano inquietanti e anacronistici, pronti a sostituire principi come giustizia sociale, libertà di tutti i popoli come segno di accettazione e rispetto per tutte le diversità di qualunque natura con quelli dell’egoismo nazionalista, del sangue e del suolo. Al peggio, dunque, non vi è limite: solo oggi, infatti, leggiamo sull’inserto culturale del più importante quotidiano nazionale una frase estratta da un’intervista a Yaryna Grusha Possamai, classa 1986, scrittrice e insegnante di letteratura ucraina alla Statale di Milano “La cultura e la letteratura russa vanno riviste: non dico cancellate ma ristudiate. Tutti ci si siamo stupiti di Bucha, di Mariupol, del male portato dall’esercito russo.  E questa è una conseguenza della cultura russa. Le proteste in Russia sono durate due settimane; la grande massa sostiene la politica di Putin: quindi ci vuole una riflessione profonda anche da parte di cui si occupa di cultura e di letteratura.” (1). Quasi un je accuse indiscriminato all’intero popolo russo; parole intrise di revisionismo culturale, rancore sociale e di russofobia, parole che certamente non rendono onore a chi le ha pronunciate né tantomeno agli ucraini e a tutti coloro che credono ancora al valore salvifico della cultura. Ma ancor più grave della loro semplice constatazione è il fatto che tale arroganza intellettuale passi per i corridoi delle università magari facendo proseliti tra gli studenti. Inoltre l’insistenza nel dichiarare la propria appartenenza all’Europa (che è di fatto cosa ovvia), diviene strumentale nell’esclusione dell’altro, ovvero la Russia, come non appartenente all’Europa. Come non comprendere che tale pensiero, anziché favorire la pace tra i popoli, risuoni invece, almeno sul piano simbolico, come una dichiarazione di guerra!?                

Se vogliamo, infine, un’altra Europa capace di proporre un proprio modello culturale di sviluppo che non sia quello propugnato dal sistema di valori americano, se ci sta a cuore una politica non solo economica che sia frutto dell’elaborazione di un “pensiero europeo”, allora sarà necessario armarsi di un antiamericanismo non tanto ideologico quanto pragmatico, dal momento che non sarà facile liberarsi di un impero che ha messo a punto strumenti efficaci di coercizione e ricatto economici sotto forma di presunta difesa della democrazia, quella dei paesi cosiddetti liberi, ma da che cosa? Forse da ideologie che ribadiscano la necessità e l’urgenza di una maggiore giustizia sociale, del rispetto dell’uomo come individuo e come corpo sociale contro il crescente ultra individualismo di massa (un ossimoro che andrebbe studiato a fondo), carne da macello del mercato globale, alimentato dai social media dove l’odio circola indisturbato, dove ciascuno si convince di possedere una propria verità. Al di sopra di tale brusio assordante troviamo davvero il cosiddetto “pensiero unico” (ben manifesto anche oggi di fronte al conflitto in atto), che se da una parte concede l’illusione della libertà attraverso sistemi mediatici da lui stesso inventati, dall’altra prosegue ormai indisturbato il suo cammino di distruzione planetaria che la pseudo sinistra che governa oggi non solo in Italia chiama invece, con i nomi di progresso, tecnocrazia e civilizzazione nell’identificazione di un nemico da combattere, sempre e comunque.

Qualcuno potrà certamente obiettare che l’America o se si vuole le due Americhe sono un prodotto dell’Europa come lo è anche Israele (dove le vecchie istanze socialiste e anarco-socialiste sono state via via sconfitte e abbandonate) e che dunque le nostre politiche non potranno mai allontanarsi da un modello prestabilito. Tuttavia già tra le due Americhe esiste un divario sostanziale che consente a quella più a Sud di concepire politiche alternative, di parlare ancora di socialismo e comunismo senza provare vergogna.  Noi dovremmo riprovare a fare lo stesso senza timore di restare minoranza consapevole e con una diversa idea di libertà. 

Se dopo la fine della seconda guerra mondiale l’alternativa non solo europea ma mondiale al modello capitalista nordamericano fu il socialismo reale, la constatazione del suo fallimento (per ragioni che altrove sono già state ampiamente spiegate), ci induce ugualmente a credere che la sola alternativa che ci rimane per non autodistruggerci con politiche planetarie dissennate, è quella di una nuova declinazione del socialismo e insieme della persona umana, al di là di ogni illusione consumistica.   

Note

1. Jessica Chia, Il tabù è caduto, in Ucraina l’epos vive, in La Lettura, 17 luglio 2022, pag.40         

fondazione nenni

Via Alberto Caroncini 19, Roma www.fondazionenenni.it

Rispondi